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domenica 15 maggio 2011

Principi di correttezza e buona fede nel licenziamento Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 28.03.2011 n° 7046

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 28 marzo 2011, n. 7046

Svolgimento del processo
1.- B.B. con ricorso al giudice del lavoro di Viterbo esponeva di essere stata licenziata in data 11.6.99 per giustificato motivo oggettivo dalla locale Agenzia INA Assitalia, nonostante fosse stata già precedentemente reintegrata in sede cautelare per un analogo licenziamento. Ritenendo insussistente la motivazione addotta e adducendo il carattere vessatorio del recesso, la predetta conveniva in giudizio la Ignazio Tricomi e Carlo Bonini s.n.c., titolare dell'Agenzia, chiedendo che il licenziamento fosse dichiarato illegittimo e che tosse ordinato il ripristino del rapporto, oltre il risarcimento dei danni, che assumeva derivati anche alla sua salute dal comportamento del datore di lavoro.
Il Tribunale annullava il licenziamento perchè privo di giustificato motivo e condannava i convenuti alla riassunzione ed al risarcimento del danno ex L. n. 604 del 1966, riteneva esistente il danno esistenziale e, in questi limiti, concedeva l'ulteriore risarcimento del danno.
2.- Proponevano appello entrambe le parti: la B. in via principale insisteva perchè il licenziamento fosse dichiarato nullo per illiceità del motivo in ragione del suo carattere discriminatorio e perchè fosse concesso il risarcimento del danno alla salute; Tricomi e Bonini s.n.c. in via incidentale chiedeva che fosse accertata l'esistenza del giustificato motivo e tosse dichiarato inesistente il danno esistenziale.
La Corte d'appello di Roma con sentenza del 4.10.07 rigettava l'impugnazione principale ed accoglieva quella incidentale, respingendo in toto le domande della B..
La Corte, essendo provata una consistente riduzione del portafoglio dell'Agenzia e la conseguente riduzione di attività e ricavi, riteneva giustificata la decisione di ridurre il personale per mantenere l'equilibrio tra costi e ricavi, non essendo necessaria l'esistenza di una conclamata crisi aziendale, essendo invece il licenziamento uno strumento per prevenire la crisi stessa m considerazione delle dimensioni dell'azienda, ove la soppressione di una sola posizione lavorativa era tale da consentire detto riequilibrio.
Quanto alla scelta della B. per il licenziamento, il giudice riteneva impossibile la sua destinazione ad altre mansioni, in quanto la prosecuzione dell'occupazione avrebbe procurato lo squilibrio dei costi aziendali. Riteneva, altresì, che il datore di lavoro, a differenza di quanto previsto per il licenziamento collettivo, non fosse vincolato ad alcun criterio di scelta ed al confronto tra le situazioni soggettive dei vari dipendenti, essendo sufficiente la prova della relazione tra il licenziamento ed il morivo oggettivo dedotto.
Includeva inoltre il carattere ritorsivo o discriminatorio del licenziamento - già implicitamente escluso dall'accorato g.m.o., l'esistenza del quale avrebbe dovuto escludere in nuce che la ritorsione potesse essere l'unico motivo determinante del recesso - ritenendo che la reiterazione del recesso a distanza di quattro anni fosse circostanza del tutto neutra e che la destinazione in trasferta della dipendente ad una sub-Agenzia periferica prima del licenziamento era conseguenza di una esigenza aziendale.
Quanto al risarcimento del danno, pur escluso in principio per la legittimità del comportamento datoriale, il giudice riteneva non provato il danno alla salute e. insussistente il danno esistenziale, non avendo parte ricorrente allegato elementi di fatto tali da poter essere considerati come fonte di presunzione per la individuazione del danno in questione.
3.- Propone ricorso per cassazione B., cui risponde parte convenuta con controricorso.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
4.- I motivi dedotti da B. possono essere sintetizzati come segue.
4.1.- Con il primo motivo è dedotta violazione della L. 15 maggio 1966, n. 604, artt. 3 e 5, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c., contestandosi l'affermazione che nel licenziamento individuale per g.m.o. il datore non è vincolato da criteri di scelta e non è tenuto a confrontare le situazioni personali dei dipendenti, mentre, invece, avrebbe dovuto selezionare i lavoratori da licenziare tacendo applicazione analogica dei criteri previsti dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 5, o comunque dei criteri di correttezza e buona fede desumibili dagli artt. 1175 e 1375 c.c..
4.2.- Con il secondo motivo è dedotta violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in punto di attribuzione, dell'onere della prova, e carenza di motivazione a proposito delle modalità della riorganizzazione aziendale e della possibilità di utilizzare diversamente la ricorrente nell'agenzia. In ragione delle modeste dimensioni aziendali, pienamente conosciute dal datore di lavoro, a questi dovrebbe essere interamente attribuito l'onere di provare l'impossibilità di reimpiegare in mansioni diverse il lavoratore, senza che questi abbia l'onere di indicare le mansioni in questione.
4.3.- Con il terzo morivo è dedotta violazione della L. n. 108 del 1990, art. 3, e della L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè carenza di motivazione a proposito dell'esistenza di inequivoci comportamenti discriminatori. E' contestata l'affermazione che la ritenuta legittimità del comportamento dei datori di lavoro sul piano della gestione della riduzione del personale escluderebbe in nuce la possibilità di atti discriminatori, ì quali possono consistere invece in comportamenti che, pur leciti singolarmente, diventano illeciti se riconducibili ad un complessivo disegno persecutorio. In particolare è contestato il mancato confronto del trattamento riservato alla B. con quello riservato ad altri dipendenti.
5.- Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati.
6.- Anteponendo la trattazione del terzo morivo per ragioni di consequenzialità logica, deve, rilevarsi che nel licenziamento per cui sia richiesta per legge l'esistenza di una giustificazione, una volta accertata l'obiettiva esistenza dei fatti necessari per radicare il potere di recesso, restano irrilevanti eventuali profili di arbitrarietà e irrazionalità dei motivi dell'atto, cosi come l'esistenza di ipotesi di discriminazione diverse da quelle tipizzate dalla legge, sempre che non sia configurarle un motivo determinante contrario a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume (Cass. 13.1.2.95 n. 12759).
In particolare, con riferimento al licenziamento discriminatorio invocato dalla ricorrente, il divieto sancito dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, e dalla L. n. 108 del 1990, art. 3, deve interpretarsi in senso estensivo, di modo che l'area dei motivi vietati (il cui onere probatorio grava sul lavoratore) comprende anche il licenziamento per ritorsione, ossia intimato a seguito di comportamenti risultati sgraditi al datore di lavoro (Cass. 3.5.97 n. 3837).
Circa la prova dei tatti determinanti tali ipotesi occorre, tuttavia, dimostrare specificamente, con onere a carico del lavoratore, che l'intento discriminatorio e di rappresaglia per l'attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri tatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. 14.7.05 n. 14816).
6.2.- Con riferimento alla posizione della B., il giudice di merito, ravvisata l'esistenza del giustificato motivo oggettivo, ha escluso il carattere ritorsivo (e comunque discriminatorio) sulla base di una valutazione di carattere logico e di fatto della posizione aziendale della B..
Sul piano logico ha ritenuto che una volta accertata l'effettività del g.m.o. e la mancanza di vincoli per il datore per la scelta del dipendente da licenziare, di per sè dovesse essere escluso il carattere ritorsivo, atteso chela motivazione recondita avrebbe potuto escludere la legittimità del licenziamento solo ove fosse stata provata la sua esclusiva efficacia determinativa del recesso.
Sul piano del merito, all'esito di una compiuta disamina dei singoli episodi evidenziati, ha ritenuto insufficienti le circostanze di fatto poste dalla lavoratrice a fondamento della resi della natura ritorsiva.
La censura mossa dalla ricorrente si limita ad una mera contestazione del giudizio di tatto formulato dal giudice, senza toccare i presupposti di diritto da cui lo stesso è partito, per i quali va ravvisata invece la conformità ai principi enunciati, da questa Corte, sopra evidenziati.
Considerata la congruità della valutazione dei fatti e degli argomenti adottati, essendo inammissibile in questa sede la riconsiderazione dei fatti, il morivo deve essere ritenuto infondato.
7.- Sono, invece, fondati il primo ed il secondo motivo di ricorso.
La ricorrente contesta l'affermazione del giudice di merito, secondo cui - una volta ritenuti sussistenti gli estremi del licenziamento per g.m.o. e ritenuto che le esigenze di riorganizzazione aziendale trovassero ragione di attuazione nella soppressione non della posizione lavorativa della B. ma nella generica soppressione di una risorsa - il datore non sarebbe vincolato all'adozione di criteri di scelta ed al confronto tra le situazioni dei vari lavoratori potenzialmente destinatari del provvedimento espulsivo, essendo sufficiente che il recesso sia legato da rapporto eziologico con l'esigenza di riorganizzazione aziendale. Tale affermazione violerebbe i principi di correttezza e buona tede affermati dagli artt. 1175 e 1375 c.c., che debbono caratterizzare la condotta negoziale delle parti anche nel momento della cessazione del rapporto, salvo che non fosse stata data dal datore la prova che la lavoratrice interessata non potesse essere utilizzata in attività lavorativa diversa.
La giurisprudenza di questa Corte ritiene che il g.m.o. di licenziamento è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost..
Spetta, dunque, al giudice il controllo dell'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro con onere probatorio gravante sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, termo restando l'onere per il lavoratore di deduzione e allegazione di tale possibilità di reimpiego (v., da ultimo e per tutte, Cass. 18.03.10 n. 6559).
La stessa giurisprudenza ha rilevato che, quando il g.m.o. si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili nè il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, nè il criterio della impossibilità di repechage (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili). Non è, tuttavia, vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa, infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una di esse (Cass. 21.12.01 n. 16144).
In questa situazione, pertanto, la giurisprudenza si è posto il problema di individuare in concreto i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona tede (Cass. 6.9.03 n. 13058) ed ha ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criterì che la L. n. 223 del 1991, art. 5, ha dettato per i licenziamenti collettivi per l'ipotesi in cui l'accordo sindacale ivi previsto non abbia indicato criteri di scelta diversi e, conseguentemente, prendere in considerazione in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità (non assumendo, invece, rilievo le esigenze tecnico - produttive e organizzative data la indicata situazione di totale fungibilità tra i dipendenti) (v. la già citata sentenza 16144 n. 2001, nonchè le successive 11.6.04 n. 11124).
8.- Può, dunque, ritenersi che. nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, se il g.m.o. consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il datore di lavoro deve pur sempre improntare l'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buonafede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse.
Il giudice di merito, affermando apoditticamente che il datore non era tenuto ad adottare criteri di scelta per l'individuazione dell'unico soggetto da licenziare, invece, non ha verificato se nel caso di specie la scelta tosse stata effettuata nel rispetto dei detti canoni di correttezza e buona tede e, quindi, sulla base di un criterio improntato a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati.
Il secondo e terzo morivo sono, dunque, fondati.
9.- In conclusione, il ricorso deve essere accolto e la sentenza deve essere cassata, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale procederà a nuovo esame facendo applicazione del principio di diritto indicato sub 8) e provvederà altresì, sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corre d'appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Ridimensionamento e licenziamento: al giudice il controllo sul nesso causale

Tribunale Caltanissetta, sez. lavoro, sentenza 11.10.2010

La pronuncia 11 ottobre 2010 del Tribunale di Caltanissetta si occupa di importanti profili connessi al licenziamento derivante da ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale, soffermandosi, in particolare, su tre aspetti:
1. la necessità del nesso di causalità tra il progettato ridimensionamento aziendale ed i singoli provvedimenti di recesso datoriale attuativi del ridimensionamento, nonché l’ampiezza dei poteri del Giudice nella valutazione di detto nesso di causalità;
2. i criteri di valutazione circa la sussistenza del trasferimento d’azienda;
3. l’ammissibilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 per la tutela dei crediti pecuniari di lavoro.
1-a) Sul nesso di causalità tra il ridimensionamento del personale aziendale ed i singoli licenziamenti
Circa la necessità della sussistenza del nesso di causalità tra il progetto di ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di licenziamento attuativi del progetto, il Tribunale di Caltanissetta, nel solco interpretativo tracciato dalla recente giurisprudenza di legittimità, afferma due importanti principi, l’uno relativo alla sussistenza del nesso, l’altro concernente l’allocazione dell’onere della prova in ordine alla dimostrazione dello stesso.
1) Sul primo versante, il Tribunale statuisce l’imprescindibilità del “nesso causale tra il progettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso”;
2) Circa la ripartizione dell’onus probandi in ordine alla sussistenza del nesso, si afferma che sul datore di lavoro grava l’onere di allegazione dei criteri di scelta e la provadella loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi ultimi, dello stato familiare, dell’anzianità e delle mansioni; per converso, incombe al lavoratore dimostrare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata.
Ne deriva che, ove il datore di lavoro si sia limitato a comunicare dei criteri assolutamente vaghi, inidonei a consentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di comparare la propria posizione con quella degli altri dipendenti che hanno conservato il posto di lavoro, nessun onere è ravvisabile in capo al lavoratore.
In altre parole, nella pronuncia si pone l’accento sulla necessità della formulazione, da parte del datore di lavoro, di ben definiti criteri causali attuativi del ridimensionamento, tali da porre il lavoratore nelle condizioni di individuarne eventuali illegittimità.
Ove ciò non avvenga, risulta compromessa in radice la tutela della posizione del lavoratore, impossibilitato ad individuare e contestare l’eventuale difformità tra i criteri programmatici dettati e la scelta attuativa dei singoli licenziamenti.

1-b) Sull’ampiezza dei poteri del Giudice nella valutazione del nesso causale tra progetto di ridimensionamento e singoli licenziamenti
Una volta affermata la necessità della sussistenza del nesso causale nei termini sopra esposti, la sentenza delinea i confini del potere giurisdizionale di valutazione e sindacato in ordine alla scelta imprenditoriale del ridimensionamento aziendale, stabilendo che il Giudice “non può sindacare (nel merito) le scelte imprenditoriali nel dimensionare il livello occupazionale in riferimento alla programmata ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale”, ma “deve comunque accertare la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso”.
Nessun potere di sindacare, quindi, la scelta imprenditoriale del progetto di ridimensionamento, ma il dovere di valutare il nesso causale tra il progetto di ridimensionamento ed i licenziamenti.
A sostegno dell’assunto sull’ampiezza dei poteri del Giudice, il Tribunale sottolinea che a seguito dell’entrata in vigore della legge 23 luglio 1991, n. 223 in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, gli spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa hanno subito una rilevante erosione, non potendo più riguardare gli specifici motivi della riduzione del personale, ma soltanto la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza effettuare contestazioni sull’elusione dei doveri di informazione e consultazione con i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di ‘effettive’ esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva.
Ancora, se il Giudice non ha il potere di censurare la scelta imprenditoriale del ridimensionamento, ha tuttavia il potere di valutare la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare sotto il profilo della non discriminazione e della razionalità.
Difatti, alla stregua di quanto già affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 94/268, la determinazione di tali criteri, elaborata congiuntamente da datori di lavoro e organizzazioni sindacali, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione sanzionato dall’art. 15 l. 300/70, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri della obbiettività e della generalità e devono essere coerenti col fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori.
Nel caso di specie, il criterio di scelta dei lavoratori da licenziare trasfuso negli accordi sindacali, rappresentato unicamente dalla alternativa tra la rinunzia alle pregresse spettanze lavorative e la conservazione del posto di lavoro, è stato ritenuto contrario ai principi di non discriminazione e razionalità, con conseguente illegittimità del licenziamento.
2) Sugli indici sintomatici del trasferimento d’azienda
Con l’arresto giurisprudenziale in commento il Tribunale di Caltanissetta fornisce anche una chiara disamina sulla nozione di trasferimento d’azienda e dei relativi presupposti, interpretando il correlativo dato normativo codicistico.
L’art. 2112 comma quinto del Codice civile dispone al riguardo che “si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.
Secondo la ricostruzione operata dal Tribunale il requisito della conservazione dell’identità dell’attività economica precedentemente esercitata dal cedente impone che l’attività organizzata “conservi le caratteristiche funzionali ed organizzative durante il trasferimento”.
Inoltre, si afferma che, quanto al titolo del trasferimento dal cedente al cessionario, assume rilievo “non il mezzo giuridico concretamente impiegato, quanto il fatto che il nuovo imprenditore diventi titolare del complesso organizzato e funzionale dei beni”.
Nel caso di specie gli elementi rappresentati dal trasferimento alla società cessionariadei lavoratori e dei mezzi organizzati all’attività d’impresa consentono di per sé di configurare l’operazione complessivamente analizzata in termini ditrasferimento d’azienda, a prescindere dalle singole tipologie negoziali adottate dai contraenti ai fini della cessione dell’attività.
3) Sull’ammissibilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 per la tutela dei crediti pecuniari di lavoro
Circa l’impiegabilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. quale mezzo di tutela dei crediti pecuniari di lavoro, il Tribunale nisseno, richiamando consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito, afferma: “il provvedimento di urgenza ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. – benché finalizzato a tutelare diritti concernenti un bene infungibile (quale non è il denaro) - è ammissibile a tutela dei crediti (pecuniari) di lavoro (nella misura in cui i relativi proventi siano necessari ad assicurare il bene della ‘esistenza libera e dignitosa’ presidiato dall’art. 36 Cost.), potendo derivare dal loro ritardato soddisfacimento un pregiudizio non riparabile altrimenti; nell’ambito del processo del lavoro, il ricorso al provvedimento d’urgenza ha senso in quelle sole ipotesi nelle quali il decorso anche di un breve arco temporale esporrebbe il lavoratore ad un’irrimediabile lesione della sua posizione sostanziale” (Cass. Civ., sez. Lav., n. 8373/97).
Ancora, circa la sussistenza del requisito del periculum in mora giustificativo nella richiesta in via d’urgenza di reintegrazione del posto di lavoro, si afferma: “nell’ipotesi di licenziamento del lavoratore non possono essere ravvisate deroghe alla disciplina prevista dall’art. 700 c.p.c. e, d’altra parte, il mero danno economico costituito dalla perdita della retribuzione, conseguente a licenziamento, non concretizza di per sè il requisito del ‘periculum in mora’ necessario per ottenere in via d’urgenza la reintegrazione nel posto di lavoro, trattandosi di danno sempre risarcibile. Infatti per un diritto di credito è ammissibile la tutela in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ove a questo siano indissolubilmente ed immediatamente correlate situazioni giuridiche soggettive non patrimoniali - di cui il dipendente attore deve fornire prova - quali il diritto all’integrità fisica o alla salute, che potrebbero essere pregiudicate definitivamente dal ritardo nella soddisfazione del diritto di credito” (conf. Tribunale di Palmi, 23 luglio 2002).
In altre parole la sentenza in esame riconduce l’ammissibilità del provvedimento d’urgenza di reintegrazione nel posto di lavoro al periculum in mora rappresentato dal pregiudizio definitivo ed irreparabile alla conduzione di un esistenza libera e dignitosa che determini delle ricadute irreversibili su beni di rilevanza costituzionale, tra i quali sono da annoverarsi senza dubbio l’integrità fisica e la salute del lavoratore e dei componenti della sua famiglia.
(da Altalex, 27 aprile 2011. Nota di Filippo Di Camillo.)

domenica 1 maggio 2011

FIAT - CGIL - 2° ROUND

In allegato le sentenze dei Tribunali di Torino e Modena che accolgono il ricorso della Fiom-CGIL contro il contratto separato del 2009 per sette aziende del Gruppo Fiat (Emmegi spa, Maserati spa, Rossi spa, Glem Gas spa, Ferrari spa, Case New Holland Italia spa e Titan Italia spa), ritenendo legittimo il contratto siglato nel 2008.
In particolare i Tribunali dichiarano antisindacale il comportamento delle aziende che hanno di fatto disapplicato un accordo ancora temporalmente valido applicando già il nuovo contratto collettivo siglato senza la partecipazione della CGIL.
Le pronunce, tuttavia, non intaccano minimamente la validità del nuovo accordo, ma puniscono semplicemente l'atteggiamento "cerchiobottista" delle aziende del gruppo Fiat che, senza dirlo espressamente, hanno di fatto ignorato la persistenza della vigenza del vecchio CCNL quantomeno verso gli iscritti CGIL e coloro i quali non sono iscritti ad alcun sindacato. Si tratta quindi di un punto indiscusso ed indiscutibile, quello dell'operatività fino a naturale scadenza del vecchio CCNL per chi non ha sottoscritto il nuovo, che incide solo in questa fase transitoria.
Chiaramente le sentenze offrono spunti che riguardano la più complessiva vicenda dei rapporti tra CGIl e Fiat.
Personalmente ritengo che in tale vicenda più che mai valga il metodo e non il merito. Mi spiego: la complessiva vicenda anche se attrae particolarmente per l'autorevolezza dei Soggetti in causa, va analizzata compiendo lo sforzo di non prendere parte per nessuno dei contendenti, altrimenti ogni valutazione è falsata. L'ideologia, le idee e gli interessi sono una cosa, il diritto un'altra. Ciò non toglie che la complessiva vicenda debba porre seri interrogativi sul sistema delle relazioni industriali in Italia e deve costituire uno stimolo affinchè ciascuno si formi una seria idea del modello migliore applicabile de jure condendo. Ovviamente il compito finale spetterà al Legislatore ma, come sempre, ogni operatore ed ogni appassionato della materia può fornire il suo piccolo o grande contributo alla formazione di un sistema quanto più condiviso e, se possibile, quanto più in linea con il complesso ordinamentale.
Comune ecco le sentenze che, sebbene di primo grado, vale la pena di leggere. Buona lettura.

SENTENZA TRIBUNALE DI TORINO

SENTENZA TRIBUNALE DI TORINO 2

SENTENZA TRIBUNALE DI MODENA