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lunedì 31 dicembre 2012

Riforma Fornero: la sua specialità e il rapporto con gli altri riti. I criteri intepretativi




Tratto da: 
L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL NUOVO RITO PER L’IMPUGNAZIONE
DEI LICENZIAMENTI E DISCIPLINA DELLA FASE DI TUTELA URGENTE

dott. Paolo Sordi (Presidente I sezione Lavoro del Tribunale di Roma).

L’altra evidente caratteristica dell’intervento del legislatore è la scelta di non ricorrere a qualcuno dei modelli processuali già rinvenibili nell’ordinamento, ma di crearne uno nuovo, in chiara (ed immediata) smentita del lodevole proposito di semplificazione dei riti che aveva condotto, meno di anno prima, all’emanazione del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150. Si aggiunga che quello creato dal legislatore del 2012 è un rito difficilmente assimilabile ad uno di quelli già presenti nell’ordinamento. Invero, come pure è stato notato3, esso presenta alcune caratteristiche proprie del procedimento di repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 della legge n. 300 del 1970, altre tipiche del procedimento sommario di cognizione disciplinato dagli artt. 702-bis ss. c.p.c. ed altre ancora comuni alla disciplina del procedimento cautelare uniforme (artt. 669-bis ss. c.p.c.). È pertanto impossibile qualificare il nuovo modello processuale come una species di qualcuno di quei genera e occorre invece riconoscere che si tratta di un rito con proprie caratteristiche che si affianca a quelli già noti.
Una simile conclusione non è priva di conseguenze: una volta ammessa la piena specificità del procedimento di cui all’art. 1 della legge n. 92 del 2012, al fine di risolvere questioni di natura interpretativa poste dalla sua disciplina, non è possibile ricorrere sempre e comunque a soluzioni elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in riferimento ad uno dei tre modelli processuali prima ricordati; quelle elaborazioni vanno sicuramente tenute presenti, ma limitatamente ai singoli tratti di disciplina che siano sovrapponibili con quelli del nuovo rito; e comunque sempre previa verifica della compatibilità della soluzione con le specifiche caratteristiche e la ratio del procedimento introdotto dal legislatore del 2012.
Invece, al fine di colmare le lacune della disciplina della legge n. 92 del 2012 (nella quale manca la regolazione di numerosi aspetti del procedimento, anche di indubbia rilevanza, come, ad esempio, la competenza per territorio), occorre, in generale, far riferimento alle disposizioni codicistiche in materia di controversie di lavoro4. Vale a dire che la disciplina dettata dagli artt. 409ss. c.p.c. si applica alle controversie in questione per tutto quanto non previsto dall’art. 1, commi da 48 a 65 (ovviamente a condizione che sussista la compatibilità di cui si è detto in precedenza). Seppure nella legge n. 92 del 2012 manchi un’espressa disposizione in tal senso, tale conclusione può essere agevolmente argomentata sulla base dell’espressione utilizzata dal legislatore, il quale non ha qualificato la disciplina da esso dettata come esaustiva; esso invece si è limitato a prevedere che quella disciplina «si applica» alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti, presupponendo, quindi, che si tratti di una disciplina “aggiuntiva”, per così dire, a quella che ordinariamente regola quella categoria di controversie. E tale è, appunto, quella del Capo I del titolo IV del libro secondo del codice di rito che, a norma dell’art. 409, n. 1, c.p.c. si applica a tutte le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato privato.
A conforto di tale conclusione si aggiungano, da un lato, la già segnalata irriducibilità del nuovo rito ad uno degli altri procedimenti “speciali” (con conseguente impossibilità di ricorrere alla disciplina di questi ultimi per colmare le lacune di quella della legge n. 92 del 2012) e, dall’altro, che, considerato l’oggetto delle controversie di cui qui si tratta, è sicuramente maggiormente coerente con il generale ordinamento giuridico processualcivilistico ricondurre tali cause al rito codici stico del lavoro, piuttosto che al rito ordinario.


mercoledì 26 dicembre 2012

Rito Fornero: la prima pronuncia del Tribunale di Torre Annunziata

In allegato l'ordinanza resa con rito Fornero dal dott. Aldo Rizzo, giudice del lavoro presso il Tribunale di Torre Annunziata. 
L'ordinanza presuppone l'applicabilità del rito Fornero anche ai licenziamenti intimati prima dell'entrata in vigore della L. n. 92 (tempus regit actum), e l'inapplicabilità, agli stessi, del nuovo testo dell'art. 18 SdL. 
Come si noterà, l'istruttoria e lo schema decisorio ricalcano sostanzialmente quello del procedimento ordinario. E' infatti ovvio che in ogni caso, anche in presenza di giudizio sommario, il Giudice sia tenuto (fosse solo per opportuna prudenza, tenuto conto della rilevanza delle decisioni in tema di licenziamenti) ad escutere testi ed a valutare la risoluzione secondo i canonici criteri dettati dal legislatore e dalla giurisprudenza. Pertanto si perviene ad un risultato che di sommario ha ben poco, con l'indubbio vantaggio (per entrambe le parti in causa) di una trattazione veloce (deposito del ricorso del 10 agosto, decisione del 5 dicembre, con escussione di sei testi e con concessione di termini per note!).
La pronuncia tratta poi nel merito alcuni punti di interesse ricorrente, quali il tema del licenziamento per ritorsione, gli oneri di prova in tema di licenziamento, la ricorrenza della giusta causa.
In allegato, a questo link, il testo integrale dell'ordinanza.

DAL 1° GENNAIO 2013 ENTRA IN VIGORE L'ASPI: ADDIO ALL'INDENNITA' DI DISOCCUPAZIONE IN NOME DELLA FLEXICURITY !


Dal 1° Gennaio entra in vigore il nuovo sistema delineato dalla Legge Fornero (92/2012) volto a sostituire (tra l'altro) la vecchia "indennità di disoccupazione".
Il punto saliente risiede nell'introduzione di una nuova modalità di finanziamento posta a carico delle aziende che licenziano.
Tale criterio risente senza dubbio dei principi ispiratori della flexicurity, strategia integrata volta a promuovere contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro, e, per essere più precisi, dell'apporto tecnico del Prof. Ichino (come ormai risaputo da tutti). Vengono escluse ipotesi di risoluzione "non sospette", quali quelle conseguenti alla scadenza degli appalti (con la precisazione che il rapporto deve essere assistito da clausole contrattuali di salvaguardia dei livelli occupazioni che consentono il passaggio alle aziende subentranti: es art. 6 CCNL FISE o art. 4 Pulizie - Multiservizi).
I datori di lavoro saranno tenuti al versamento di uno specifico contributo per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni.

Altro punto di novità, animato pur sempre dallo stesso criterio ispiratore, risiede nella maggiore incidenza della contribuzione a carico dell'azienda nei caso di contratti a termine. 
Le aziende saranno tenute ad un contributo addizionale, pari all’1,40% della retribuzione imponibile, con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato.
Per effetto di tale disposizione, la contribuzione complessivamente dovuta per l’Aspi si attesterà in misura pari al 3,01% (1,61% + 1,40%) della retribuzione imponibile, fatte salve le eventuali riduzioni del contributo di cui al comma 25 (1,31%).

Vengono esclusi: 1)lavoratori assunti con contratto a termine in sostituzione di lavoratori assenti;  2) lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionalic) apprendisti; d) lavoratori dipendenti (a tempo determinato) delle pubbliche amministrazioni.

L'INPS ha pubblicato la circolare n. 140/2012 che riassumo di seguito:

La legge 28 giugno 2012, n. 92, di riforma del mercato del lavoro, in conformità agli scopi indicati all’art. 1, comma 1,all’art. 2, reca disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, al fine di renderne il complessivo assetto più efficiente, coerente ed equo (v. art. 1, co. 1, lett. d).
L’art. 2, co. 1 istituisce, con decorrenza 1° gennaio 2013, presso la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti ex art. 24 della legge n. 88/89, l’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASpI), con la funzione di fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un’indennità mensile di disoccupazione.
Tale nuova assicurazione - che sostituisce la preesistente assicurazione contro la disoccupazione involontaria - si caratterizza per l’ampliamento della platea dei soggetti tutelati, per l’aumento della misura e della durata delle indennità erogabili agli aventi diritto, nonché per un sistema di finanziamento alimentato da un contributo ordinario nonché da maggiorazioni contributive.
In particolare, l’ASpI erogherà un trattamento di sostegno al reddito in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla predetta data del 1° gennaio 2013, sostituendo le preesistenti indennità di disoccupazione non agricola ordinaria con requisiti normali e l’indennità di disoccupazione speciale edile nonché, a far tempo dal 1° gennaio 2017, l’indennità di mobilità di cui all’art. 7 della legge n. 223/91.
Con i successivi commi da 20 a 24 del medesimo articolo 2, la legge introduce, altresì, un’ulteriore nuova misura (mini ASpI), destinata a sostituire la precedente indennità di disoccupazione non agricola con requisiti ridotti.
Sono inclusi nella nuova assicurazione tutti i lavoratori dipendenti, ivi compresi gli apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito, con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata ex art. 1, co. 3, legge n. 142/2001 e successive modificazioni, con esclusione dei dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni.
Per il finanziamento delle assicurazioni ASpI e mini ASpI, la legge n. 92/2012 dispone l’obbligo di versamento delle seguenti contribuzioni: ordinario (art. 2, co. 25-27 e co. 36); addizionale (art. 2 co. 28-30);
contributo dovuto in caso di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni (art. 2, co. 31-35).
Contributo ordinario.
L’art. 2, co. 25, della legge n. 92/2012 stabilisce che, con effetto sui periodi contributivi maturati a decorrere dal 1° gennaio 2013, al finanziamento delle indennità erogate dalla nuova assicurazione concorrono i contributi di cui agli artt. 12, sesto comma, e 28, primo comma, della legge n. 160/75.
Tali norme determinavano, rispettivamente, l’aliquota del contributo integrativo per l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria (1,30% della retribuzione imponibile), nonché la percentualizzazione del contributo base dovuto per la predetta assicurazione DS (0,01% della retribuzione imponibile).
Di conseguenza, il contributo ordinario di finanziamento delle indennità ASpI e mini ASpI, posto a carico dei datori di lavoro, è pari all’1,31% della retribuzione imponibile.
L’aliquota contributiva dell’1,31% deve essere incrementata anche del contributo dello 0,30%, ai sensi dell’art. 25 della legge n. 845/78 il quale, come noto, è destinato – per le aziende che vi aderiscono - al finanziamento dei Fondi interprofessionali per la formazione continua, ovvero devoluto al Fondo di rotazione del Ministero dell’Economia (2/3) e del Lavoro (1/3).
Per effetto dell’insieme delle disposizioni citate, i datori di lavoro sono tenuti a versare un contributo complessivo pari all’1,61% (1,31% + 0,30%) della retribuzione imponibile.
Riduzioni del contributo ordinario.
L’art. 2, co. 26, dispone che sui contributi di cui al precedente comma 25 (1,31%), continuano a trovare applicazione le eventuali riduzioni del costo del lavoro di cui all’art. 120 della legge n. 388/2000 ed all’art. 1, co. 361, della legge n. 266/2005, nonché le misure compensative di cui all’art. 8 del D.L. n. 203/2005, convertito con modificazioni nella legge n. 248/2005, previste in relazione ai maggiori oneri finanziari sostenuti dai datori di lavoro per il versamento di quote di TFR alle forme pensionistiche complementari ovvero al Fondo di Tesoreria.
Contributo addizionale.
Con effetto sui periodi contributivi maturati a decorrere dal 1° gennaio 2013, l’art. 2, co. 28, della legge n. 92/2012 introduce un contributo addizionale, pari all’1,40% della retribuzione imponibile, dovuto dai datori di lavoro con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato.
Per effetto di tale disposizione, la contribuzione complessivamente dovuta per l’Aspi si attesterà in misura pari al 3,01% (1,61% + 1,40%) della retribuzione imponibile, fatte salve le eventuali riduzioni del contributo di cui al comma 25 (1,31%).
Esclusioni
Il successivo co.29 indica i casi di esclusione dall’obbligo di versamento del contributo addizionale.
Tale contributo non è dovuto con riferimento alle seguenti categorie di lavoratori:
a) lavoratori assunti con contratto a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
b) lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al D.P.R. n. 1525/1963, nonché - per i periodi contributivi maturati dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015 – per lo svolgimento delle attività stagionali definite tali dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011, dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative;
c) apprendisti;
d) lavoratori dipendenti (a tempo determinato) delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni.
Restituzione del contributo addizionale.
L’art. 2, co. 30, della legge di riforma disciplina i casi di restituzione, nel limite massimo di sei mensilità, del contributo addizionale in argomento. Al fine, infatti, di incentivare le stabilizzazioni dei rapporti di lavoro, la norma prevede che il contributo dell’1,40% potrà essere recuperato (superato il periodo di prova) dai datori di lavoro che, alla scadenza, trasformano il rapporto in un contratto a tempo indeterminato.
La restituzione può avvenire anche se il datore di lavoro, entro 6 mesi dalla scadenza del contratto a termine, riassume il medesimo lavoratore a tempo indeterminato.
In tal caso, tuttavia, opererà una riduzione corrispondente ai mesi che intercorrono tra la scadenza e la stabilizzazione.
In sintesi, quindi, la restituzione piena (sei mensilità) ricorrerà solamente nei casi di trasformazione (entro la scadenza) del contratto da tempo determinato a indeterminato nonché nell’ipotesi di stabilizzazione intervenuta il mese successivo a quello di scadenza del contratto a termine.
Nei casi di stabilizzazione successiva, opererà la contrazione prevista dalla norma.
Contributo dovuto nei casi di interruzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni.
L’art. 2, commi 31 – 35, della legge di riforma introduce e disciplina un ulteriore contributo destinato al finanziamento dell’ASpI.
È previsto, infatti, che, in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni, intervenuti a decorrere dal 1° gennaio 2013, i datori di lavoro siano tenuti al versamento di uno specifico contributo per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni.
Ai sensi dell’art. 2, co. 32, il contributo è dovuto anche per le interruzioni dei rapporti di apprendistato diverse dalle dimissioni o dal recesso del lavoratore, ivi compreso il recesso del datore di lavoro al termine del periodo di formazione di cui all’art. 2, co. 1, lett. m) del D.lgs. n.167/2011.
Il contributo in argomento non è dovuto, per il periodo 2013 – 2015, nei seguenti casi:
licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in applicazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai CCNNLL;
interruzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere.
In merito ai criteri di determinazione del contributo e alle modalità di versamento si fa riserva di successive indicazioni.

lunedì 24 dicembre 2012

Rito Fornero - assenza di preclusioni istruttorie


Il ricorso secondo il rito c.d. Fornero contempla il richiamo dell’art. 125 c.p.c. ed il mancato richiamo dell’art. 414 c.p.c.. Per simmetria deve ritenersi che anche in materia di costituzione del convenuto, il mancato richiamo dell’art. 416 c.p.c. abbia un rilievo,  quanto meno nel senso di escludere la parte della norma che prevede la  decadenza per la mancata indicazione dei mezzi di prova.
Nel ricorso introduttivo devono,  pertanto, ai sensi dell’art. 125, essere indicati: l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni. L’atto deve essere sottoscritto dalla parte se sta in giudizio personalmente o dal difensore che deve indicare il proprio codice fiscale, l’indirizzo di posta elettronica ed il numero di fax. Se si raffronta quanto richiesto dall’art. 125 con quanto richiesto dall’art. 414 c.p.c. si evince che in entrambi i casi devono essere indicati giudice e parti, nonché l’oggetto  della domanda. L’art. 125 richiede l’indicazione delle «ragioni della domanda» e delle «conclusioni». L’art. 414 «l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni». La differenza non è incisiva. La prima norma consente un’esposizione più generale e sintetica, ma richiede comunque l’indicazione della domanda e delle ragioni su cui la stessa si fonda. La diversità più consistente riguarda la prova. Solo l’art. 414 c.p.c.  richiede, al n. 5, “l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ed in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione”. Niente di analogo vi è nell’art. 125.
Deve, quindi, trarsene la conseguenza che il rito speciale per i licenziamenti può essere avviato anche senza l’indicazione specifica dei mezzi di prova. Il che trova riscontro nella disciplina dell’attività istruttoria definita dal comma 49.
Ovviamente sarebbe del tutto incostituzionale un’interpretazione della norma tale da imporre solo alla parte resistente degli oneri decadenziali in tema di indicazione dei mezzi di prova.
A ciò si aggiunga la libertà incondizionata di produzione documentale.

domenica 23 dicembre 2012

Illegittimità del licenziamento - conseguenze contributive prima e dopo la legge Fornero

Nel caso di licenziamenti intimati prima dell'entrata in vigore della L. n. 92/2012 (Legge "Fornero"), il regime risarcitorio/contributivo è sintetizzabile dalla seguente pronuncia:

Nel regime di stabilità reale previsto dall'art. 18 l. n. 300 del 1970, nel periodo compreso tra la data dell'illegittimo licenziamento e quello della pronuncia giudiziale contenente l'ordine di reintegra del lavoratore, durante il quale il rapporto di lavoro è quiescente ma non estinto, rimangono in vita il rapporto assicurativo previdenziale ed il corrispondente obbligo del datore di lavoro di versare all'ente previdenziale i contributi assicurativi (v. Corte cost. n. 7 del 1986); i contributi previdenziali sono dovuti indipendentemente dalla erogazione della retribuzione, e vanno commisurati a quella che sarebbe stata la normale retribuzione nell'intero periodo, anche se non coincidente con l'importo del danno liquidato in applicazione dei criteri di risarcimento fissati dalla legge. Cass. SSUU n. 15143/2007.


-   La Corte, sulla premessa che la pronuncia d'illegittimità del licenziamento ha natura costitutiva ed effetti retroattivi, che comportano la non interruzione, de iure, del rapporto di lavoro, assicurativo e previdenziale, ha tratto la conseguenza che, in tale ipotesi, per l'omesso o tardivo versamento dei contributi, sono applicabili le sanzioni di cui all'art. 1, comma 217, della legge n. 662 del 1996, con esclusione della sanzione una tantum ove la denuncia spontanea sia intervenuta nei sei mesi dal temine stabilito per il pagamento, senza che rilevi, a tal fine, il momento della pronuncia giudiziale di annullamento del licenziamento, salva la prevista denuncia spontanea nei sei mesi dal termine stabilito per il relativo pagamento, e non dalla suddetta pronuncia giudiziale di annullamento. Tale decisione si è posta in contrasto, per quanto riguarda la prima affermazione, con Cass. 5 dicembre 1997 n. 12366, e, per quanto riguarda la seconda affermazione, con Cass. 1º aprile 2009 n. 7934.
  Cass. n. 402/2012.

Nel caso di licenziamenti intimati dopo l'entrata in vigore della L. n. 92/2012 (Legge "Fornero"), il regime contributivo dei licenziamenti illegittimi è stato modificato con l'accoglimento dell'opzione giurisprudneziale di gran lunga minoritaria fino a quel momento e con l'evidente fine di non penalizzare eccessivamente (o ulteriormente) le aziende: ciò quantomeno nell'ipotesi di risarcimento c.d. attenuato.  
Infatti, ai sensi del terzo periodo dell’art. 18, comma 4, come novellato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012, nei casi di reintegrazione con risarcimento attenuato il versamento dei contributi previdenziali è maggiorato degli interessi legali, senza l’aggravio di quelle sanzioni civili che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, costituiscono una conseguenza automatica dell’inadempimento o del ritardo, in funzione di rafforzamento dell’obbligazione contributiva e di predeterminazione legale della misura del danno subito dall’Istituto previdenziale.
Ovviamente si comprenderà anche che in tal caso non viene "danneggiata" la posizione del lavoratore, trattandosi di sanzioni che andavano corrisposte all'INPS e, quindi, al sistema di gestione contributiva obbligatoria, ma, appunto, l'INPS. Per cui, tenuto conto del fatto che sul complessivo bilancio dell'Istituto gravano innumerevoli voci, tra cui gli ammortizzatori sociali e tutto il ramo assistenziale, è di tutta evidenza che la "premialità" introdotta, ribadiamo in opposizione alla consolidata Giurisprudenza, finirà per danneggiare la fiscalità generale, il sistema contributivo globalmente inteso, e le classi sociali più deboli. A ciò si aggiunga che tale delineata innovazione, finisce anche per premiare, o quantomeno per non sanzionare come prima, proprio quelle ipotesi di totale evasione contributiva (leggi lavoro nero) verso cui si proclama a parole guerra senza quartiere.  
Proprio l’espressa disposizione di esenzione per le fattispecie di reintegrazione attenuata di cui al comma 4 consente di affermare che le sanzioni civili sono certamente dovute nella diversa ipotesi di reintegrazione con risarcimento integrale, per le quali il legislatore nulla dispone. Le stesse saranno calcolate, di regola, nella misura prevista dall’art. 116 della legge n. 388 del 2000 per l’ipotesi più grave di evasione contributiva, perché il credito dell’Istituto previdenziale non è evincibile dalla documentazione di provenienza del soggetto obbligato, e questo fa presumere l’esistenza della volontà del datore di lavoro di occultare l’esistenza del presupposto di legge al fine di non versare i contributi. Non si possono però escludere casi di mera omissione, qualora si tratti di illecito non imputabile al datore di lavoro, o comunque questi provi l’assenza di dolo.

Sia nel regime anteriore che in quello successivo alla legge Fornero, alla contribuzione dovuta, maggiorata delle sanzioni civili o solo degli interessi di legge, si aggiunge poi l’obbligo per il datore di lavoro di versare all’Istituto previdenziale la quota a carico del lavoratore, posto che il diritto alla trattenuta viene meno nel caso in cui il datore di lavoro abbia omesso il versamento dei contributi all’ente previdenziale entro il termine stabilito.

L'aliunde perceptum contributivo.

La Legge Fornero ha inciso anche sul tema del c.d. aliunde perceptum contributivo.
Prima della novella, la contribuzione eventualmente maturata dal lavoratore non veniva in rilievo ai fini dell'obbligo contributivo (di tipo risarcitorio) conseguente al licenziamento illegittimo o inefficace.
La l. Fornero ha introdotto anche in tal caso una disposizione premiale (o meno gravosa) per i soli casi (come sopra) di licenziamenti sanzionati con il ristoro attenuato. Sono quindi esclusi i casi (tanto per intenderci) dei licenziamento inefficaci e di risarcimento "integrale".
Nella suddetta ipotesi la condanna riguarderà solo il "differenziale contributivo": ai sensi del comma 4, terzo e quarto periodo, del nuovo art. 18, il datore di lavoro, nei soli casi di reintegrazione con risarcimento attenuato, “è condannato al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, (…) per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre prestazioni lavorative. In quest’ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro”.

Occorre precisare che:
- nel suddetto caso di risarcimento attenuato l'obbligo contributivo non si limita ai 12 mesi ma si estende a tutto il periodo; 
- la contribuzione deve calcolarsi tenendo conto del nuovo e diverso sistema di articolazione e deduzione dell'aliunde perceptum (e percipiendum) retributivo;
- pur se non detto esplicitamente, la limitazione al differenziale contributivo andrà negata allorquando le attività sono tra loro compatibili astrattamente;
- la detrazione dovrà al più riguardare la contribuzione obbligatoria (non volontaria) effettivamente versata e risultante; 
- occorre inoltre verificare la detraibilità di contribuzioni afferenti gestioni diverse da quelle ordinarie (ad esempio casse professionali);
- nel caso di dichiarata risoluzione del rapporto e solo di obbligo risarcitorio, comma 5 e 6 art. 18, il risarcimento sarà da intendersi comprensivo dell'obbligo contributivo;












giovedì 29 novembre 2012

FERIE E INDENNITA' SOSTITUTIVA - IL PUNTO DELLA SUPREMA CORTE


Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 – 27 novembre 2012, n. 21028

a) il diritto alle ferie nel nostro ordinamento gode di una tutela rigorosa, di rilievo costituzionale, visto che l’art. 36 Cost., terzo comma, Cost. prevede testualmente che "il lavoratore ha diritto al riposto settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi";
b) in base all'art. 2109, secondo comma, cod. civ. l'esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente all'imprenditore quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell'impresa; al lavoratore compete soltanto la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale, anche nell'ipotesi in cui un accordo sindacale o una prassi aziendale stabilisca - al solo fine di una corretta distribuzione dei periodi feriali - i tempi e le modalità di godimento delle ferie tra il personale di una determinata azienda. Peraltro, allorché il lavoratore non goda delle ferie nel periodo stabilito dal turno aziendale e non chieda di goderne in altro periodo dell'anno non può desumersi alcuna rinuncia - che, comunque, sarebbe nulla per contrasto con norme imperative (art. 36 Cost. e art. 2109 cod. civ.) - e quindi il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la relativa indennità sostitutiva delle ferie non godute (Cass. 12 giugno 2001, n. 7951; Cass. 18 giugno 1988, n. 4198; Cass. 2 ottobre 1998, n. 9797);
c) in merito alla natura di tale indennità, pur con qualche incertezza (vedi da ultimo: Cass. 11 maggio 2011, n. 10341 e precedenti ivi richiamati), l'indirizzo prevalente cui si intende dare continuità è nel senso che essa, oltre a poter avere carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita del bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l'istituto delle ferie è destinato, per un altro verso costituisce un'erogazione di natura retributiva, perché non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell'attività lavorativa resa in un periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse (vedi, per tutte: Cass. 9 luglio 2012, n. 11462; Cass. 25 settembre 2004, n. 19303; Cass. 19 maggio 2003, n. 7836; Cass. 2 agosto 2000 n. 10173; Cass. 5 maggio 2000 n. 5624; Cass. 13 marzo 1997 n. 2231);
d) infatti, il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie deriva dal mancato godimento delle ferie, una volta che sia divenuto impossibile per il datore di lavoro, anche senza sua colpa, adempiere l'obbligo di consentire la fruizione delle ferie stesse (fra le tante; Cass. 19 ottobre 2000 n. 13860, Cass. 13 maggio 1998 n. 4839; Cass. 18 maggio 1995 n. 5486, 20 gennaio 1993 n. 677);
e) in particolare, da citato art. 2109, secondo comma, cod. civ. si desume che il diritto all'indennità sostitutiva delle ferie presuppone soltanto la prova del mancato godimento di tale riposo nell'arco annuale, indipendentemente da ogni manifestazione di volontà dell'imprenditore (Cass. 19 novembre 1997, n. 2187);
f) pertanto, in più occasioni, clausole di contratti collettivi per dipendenti ferroviari prevedenti esclusivamente il godimento delle ferie e non anche l'indennità sostitutiva sono state interpretate - con riferimento a fattispecie analoghe a quella attualmente subjudice e in applicazione del principio di conservazione del contratto - nel senso che la mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore, non può escludere il diritto di quest'ultimo all'indennità sostitutiva delle ferie, in considerazione della irrinunciabilità del diritto stesso (Cass. 9 novembre 2002, n. 15776; Cass. 17 febbraio 2003, n. 2360; Cass. 9 aprile 2003, n. 5515; Cass. 16 maggio 2003, n. 7714; Cass. T7 maggio 2004, n. 8471; Cass. 10 gennaio 2007, n. 237).
4.2 - L'impugnata sentenza ha deciso sul punto riguardante il mancato godimento dei residui diciotto giorni di ferie nell'anno 1998 - pacificamente non goduti dal P. , il quale, a causa dell'insorgenza di una malattia del pari incontestata, ha dovuto interrompere la prestazione lavorativa dal 19 settembre 1999 al 6 gennaio 2000 e non ha espresso alcuna volontà in merito fruizione del suddetto periodo feriale, in assenza di determinazioni dell'azienda al riguardo fino all'insorgere della suindicata malattia - in difformità dai ricordati principi in tal modo violando l'art. 36 Cost. e le altre norme richiamate, anche in ordine all'interpretazione delle clausole contrattuali indicate.

domenica 25 novembre 2012

Passaggi di cantiere: l'obbligo di conclusione del contratto di lavoro

In allegato la sentenza resa dal Tribunale di Torre Annunziata, sezione lavoro, G.d.L. dott.ssa Palumbo, n. 2698 del 09.10.2012, emessa a seguito di un'azione intentata da un lavoratore per vedersi riconosciuto il diritto al passaggio immediato e diretto alle dipendenze di un'azienda che era succeduta alla datrice di lavoro del ricorrente nella gestione di un appalto di igiene ambientale.  

La sentenza ribadisce che l’art. 6 del CCNL FISE 2003, tenuto conto della sua formulazione, non pone, in capo al soggetto subentrante nel contratto di appalto, un obbligo specifico di assumere i dipendenti dell’azienda che espletava il medesimo servizio in forza del cessato appalto. Tale prinicipio è stato quasi unanimamente adottato da quasi tutte le pronunce sul tema.
Ciò che più ci interessa evidenziare, è che la sentenza interviene sul punto centrale del meccanismo su cui si basa l'azione finalizzata ad ottenere il c.d. passaggio di cantiere, vale a dire sulle condizioni per l'applicabilità dell'art. 2932 c.c.. 
Il ricorrente, pur se spesso inconsapevolmente, agisce per sentire costituito un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'azienda affidataria del servizio, per cui, agendo in forza dell'art. 2932 c.c., ipotizza la sussistenza di un obbligo di conclusione del contratto, di derivazione contrattuale, in capo all'appaltatrice. 
La sentenza chiarisce che tale costituzione forzosa è possibile solo se la norma contrattuale invocata, o comunque la fonte dell'obbligo invocata, sia sufficientemente precisa al fine di consentire l'individuazione di tutti gli elementi essenziali del costituendo contratto di lavoro.
Nel caso dell'art. 6 CCNL FISE /Igiene Ambientale aziende private), così come osservato in sentenza, ma, evidenziamo noi, nel caso di tutte le clausole sociali di salvaguardia inserite nei contratti collettivi, e, quindi, anche nel nuovo testo del CCNL FISE, tali elementi non sono presenti, mancando una sufficiente specificazione che, di regola, viene operata negli accordi sindacali successivi alla procedura di passaggio.
Ciò significa, dunque, che in mancanza di un accordo sindacale sufficientemente analitico, la norma contrattuale non basta a supportare la richiesta ex art. 2932 c.c..
Del resto la Suprema Corte ha sempre legato l’accesso a tale forma di tutela all’esistenza di un impegno negoziale tra le parti. Più precisamente il ricorrente può vantare una tutela in forma specifica allorquando tra le parti sia intervenuto un accordo sindacale che abbia specificato, anche per relationem, i contenuti della prestazione lavorativa (ad es.  Cass. Civ. 27841/2009 o i casi citati dal ricorrente). 
Pertanto, anche nella vigenza del riformato art. 6 CCNL Fise, che secondo alcuni, diversamente dal vecchio testo, contemplerebbe un diritto soggettivo prima insussistente, la mancanza dell'accordo sindacale non consente alcuna azione giudiziale al lavoratore che dovesse ambire al passaggio.

La sentenza a questo link. Il punto di interesse è a pagina 5.

sabato 24 novembre 2012

Mobilità: scelta dei lavoratori nell'ambito di una sola unità produttiva

La scelta dei lavoratori da collocare in mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire anche nell’ambito di una sola unità o di un solo settore produttivo. 
Tale decisione, tuttavia, va supportata da giustificate ragioni produttive e organizzative. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19644/12, depositata il 12 novembre.

giovedì 1 novembre 2012

CASO FIAT: L'ORDINANZA DELLA CORTE DI APPELLO DI ROMA

In allegato il testo dell'ordinanza emessa dalla Corte di Appello di Roma a seguito dell'appello proposto da Fabbrica Italia Pomigliano spa e da Fabbrica Italiana Pomigliano spa, avverso l'ordinanza del Tribunale di Roma che aveva ritenuto discriminatorio il licenziamento operato dalle dette aziende di 22 dipendenti.
L'azione è stata originariamente introdotta dalla FIOM che ha agito avvalendosi del disposto di cui all'art. 5 del D.Lgt. 216/2003, in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro. La norma contempla, come ad esempio nel caso della disciplina in tema di parità di trattamento tra uomo e domma, la possibilità per l'O.S. di agire direttamente in giudizio a tutela dei lavoratori ritenuti discriminati. Il pool difensivo era costituito da legali facenti parte delle organizzazioni territoriali CGIL interessate, quindi anche campane. Altri 3 dipendenti vengono assistiti e rappresentati "tradizionalmente" da avvocati "di libero foro" (cioè non strutturali ad organizzazioni di tendenza, quindi, secondo un mio personale giudizio e con tutto il rispetto per gli avvocati "legati" al sindacato, di libero foro).
L'art. 28 D.Lgt. 150/2011. Il primo nodo da sciogliere attiene alla natura ed al fondamento positivo dell'azione come instaurata in primo grado. L'azione fa leva sul nuovo art. 28 del D.Lgt. 150/2011 (c.d. di semplificazione dei riti). La specifica norma in questione ha la finalità di accorpare in via unitaria la disicplina processuale relativa ad azioni giudiziarie volte a contrastare fenomeni di discriminazione.
Come si comprenderà, non si tratta quindi di discriminazioni necessariamente collegate ai rapporti di lavoro, per cui si pone un primo problema in ordine alla competenza ratione materiae del Giudice del lavoro, un secondo problema in tema di competenza territoriale (individuata dal citato art. 28 nel foro di residenza del soggetto agente, un terzo problema di rito applicabile, un quarto costituito dal raccordo con la disciplina di un altro art. 28, quello dello Statuto Lavoratori l. 300/70 in tema di comportamenti antisindacali.
E' evidente che la FIOM ha deciso di seguire la strada dell'art. 28 del D.Lgt 150/11 perchè tale articolo, al comma 5, prevede un'inversione dell'onere della prova che costituisce un grande vantaggio nelle ipotesi di discriminazioni, consentendo di far emergere la valenza di comportamenti apparentemente neutri se singolarmente considerati.
I veri profili di criticità vengono così risolti dalla Corte di Appello.
1) la competenza funzionale del Giudice del lavoro - Sul punto De Luca Tamajo commette a mio avviso (consentitemi l'insolenza) un errore (a meno che non sia stata una scelta strategica volta ad avere un giudicato da un giudice specializzato). Non ha, stando a quanto si legge nell'ordinanza, contestato, quantomeno in appello (ma riteniamo che il profilo era in dubbio anche nel I grado) tale competenza per materia, per cui va de plano la competenza funzionale del Giudice del Lavoro. L'erroneità della scelta si ricava chiaramente anche dall'inquadramento operato dalla Corte di cui si dirà, ma era ben prevedibile già dalla lettura dell'art. 28.
2) La portata dell'art. 28 D.Lgt. 150/11. La Corte conclude ritenendo che l'art, 28 costituisca una sorta di norma in bianco. Non ha, cioè, un ambito di tutela definito autonomamente, ma è applicabile a tutte le ipotesi di discriminazione positivamente determinate. Pertanto, anche se la libertà sibdacale non è espressamente menzionata, considerato che quest'ultima è tutelata in linea di principio dall'art. 15 SdL, è evidente che la anche a tale ipotesi è applicabile l'art. 28 in parola.
Le varie ipotesi di discriminazioni, quindi, che non godono di uno specifico procedimento (come nel caso proprio dell'art. 28 SDL, da non confondere con quello in esame), devono ricondursi alla disciplina processuale frutto della novella.
3) Il rapporto tra i due artt. 28.La Corte, rigettando l'eccezione sul punto avanzata da FIP, ritiene che la FIOM non ha agito per la tutela di un proprio interesse sindacale, tutelato dall'art. 28 SdL, bensì avvalendosi della tutela diretta prevista dall'art. 28 D.Lgt. 150/11 nell'interesse dei singoli lavoratori. La sommatoria degli interessi dei lavoratori tutelati non coincide di certo con quello complessivo del sindacato. Ha quindi la Corte ribadito l'autonomia e la non sovrapponibilità delle due forme di tutela, affermando, a mio avviso correttamente, che l'art. 28 SdL ha un ambito ben preciso, limitato ai comportamenti "antisindacali", quindi diversi da quelli dei singoli lavoratori anche se essi agiscono collettivamente e si sentono danneggiati per la loro appartenenza sindacale. Ovviamente il tutto si risolve poi in una valutazione di merito, che come tale è da risolvere caso per caso, circa l'impostazione dell'azione. Nel caso di specie la Corte configura l'azione introduttiva come tutela dei singoli e non del sindacato. Mi risulta che FIOM abbia anche agito in sede di art. 28 SDL.
4) La tutela dell'appartenenza sindacale ad opera del D.Lgt. 151/2011. A De Luca Tamajo va dato il merito di aver elevato il livello del dibattito. Egli intende dimostrare che la "liberta sindacale", o meglio, le convinzioni sindacali, che io ridurrei alla semplice "appartenenza sindacale" (trattandosi a mio avviso, soprattutto oggi, di tutela di interessi e non di un'ideologia), non sarebbero oggetto di tutela da parte del D.Lgt. 151. Per dimostrare tanto fa ricorso alle fonti internazionali da cui deriva la disciplina nazionale. La Corte accetta il confronto e si avventura in una analisi semantica dei testi in lingua inglese che è raro apprezzare nei Tribunali. Comunque alla fine del ragionamento conclude nel senso che l'appartenenza sindacale non è esclusa dalla tutela specifca. In particolare la Corte ritiene che le "convinzioni personali" a cui fa riferimento il testo di legge ed oggetto di tutela, siano un sinonimo di "opinioni politiche o sindacali".
Inoltre la Corte ritiene che l'appartenza sindacale costituisca espressione di un credo.
Questa è una pura e semplice assurdità, figlia di convinzioni ottocentesche.
L'appartenenza sindacale costituisce esplicitazione di un'idea o semplice tutela di interessi?
A mio avviso la risposta è la seconda. Diversamente dobbiamo pensare che l'iscrizione di un avvocato ad un'associazione forense, o quella di un panettiere all'associazione panificatori del basso Lazio sia manifestazione di un'ideologia, sintesi di una scelta di vita, concretizzazione di un ideale... Ed allora anche l'industriale che aderisce a Confindustria abbraccia un'idea.
Dobbiamo smetterla con l'ammantare di religiosità gli interessi dei lavoratori subordinati. Oppure eleviamo al rango di fede anche l'appartenenza agli ordini professionali. la posizione espressa dalla Corte, che a mio avviso era centrale nella definizione del giudizio, è frutto dell'idea che è in atto ancora la lotta di classe come negli anni 70, senza rendersi conto che il mondo del lavoro è cambiato. Il discorso sarebbe lungo ma non è ideologico, è pratico.
Nel merito la Corte rigetta l'appello proposto da FIP ritenendo:
a) che l'accordo intercorso tra FGA (Fiat Group Automobiles) e le OOSS, da cui promana la discriminazione secondo il giudice di prime cure, è riferibile anche a Fabbrica Italia Pomigliano, la neocostituita società del gruppo che non aderisce a Confindustria. La Corte conferma l'inapplicabilità dell'art. 2112 c.c. ma osserva come sia evidente che la FIP abbia dato seguito agli accordi assunti dalla FGA, per cui non è possibile oggi ritenere FIP estranea a qell'accordo.
b) La prova della discriminazione. La Corte fa un'importante premessa di metodo: l'art. 28, comma 4, del D.Lgt. 150/2011 prevede che il ricorrente deve solo denunciare la discriminazione e fornire elementi di fatto anche statistici a sostegno, non è necessaria una prova compiuta e, secondo la Corte, sono quindi sufficienti delle presunzioni: è onere di controparte fornire la prova negativa della discriminazione. Ecco quindi riemergere l'importanza della scelta processuale operata dalla FIOM, A questo punto la prova contraria è quasi diabolica.
c) Tutela accordabile. La Corte ritiene che l'unica tutela accordabile sia la reintegra, o meglio, la costituzione ex novo del rapporto ex art. 2932 c.c. per garantire l'effettività della tutela ex art. 28 D.Lgt. 150/2011. La Corte precisa che l'obbligo deve contemperarsi con i criteri adottati per la scelta degli altri dipendenti assunti, da attuarsi nella ristretta cerchia degli aventi diritto. Tuttavia, nell'accogliere l'appello incidentale, precisa che la FIP non ha provato che i 19 lavoratori non hanno i requisiti di professionalità richiesti per l'assunzione degli altri lavoratori, per cui ha precluso anche tale opzione successiva.
Il decisum. 
Ordina l'assunzione dei 19 ricorrenti. Ordina l'adozione di un piano per la rimozione delle discriminazioni consistente nell'adozione di un piano di assunzione per i restanti 126 lavoratori iscritti alla FIOM alla data del deposito del ricorso, utilizzando i criteri adottati per la selezione generale.
Accoglie solo il motivo di appello relativo al danno non patrimoniale, in quanto non provato dai ricorrenti.
L'intervento. Alcuni lavoratori hanno proposto un intervento che sa tanto di intervento "civetta". Nel senso che i lavoratori deducono di non essere stati assunti ma di non essere iscritti alla FIOM, con la conseguenza che l'accoglimento delle posizioni della FIOM  finirebbe per discriminarli non consentendone l'assunzione. La Corte si pronuncia dapprima in procedura, dichiarando l'intervento ammissibile in appello e compatibile con la cognizione sommaria, poi rigetta le richieste nel merito, assimilandole a quelle proposte paradossalmente dall'appellante. Evidenzia che la rimozione di discriminazioni non può comportare discriminazioni al contrario.

Il testo dell'ordinanza a questo link.

sabato 27 ottobre 2012

Lavoro autonomo - Compenetrazione delle attività - Unica prestazione di lavoro subordinata



CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 25 ottobre 2012, n. 18286

...tra le stesse parti possono certamente cumularsi un rapporto di lavoro subordinato ed un rapporto di collaborazione autonoma ma solo quando sia netta e non fittizia la distinzione tra le prestazioni che ne costituiscono rispettivamente oggetto in una con i relativi tempi di esecuzione e, ..se invece come nella specie le prestazioni pertinenti due contratti non solo non sono agevolmente sceverabili ma tendono addirittura a sovrapporsi e a confondersi, la conclamata soggezione dell'una al vincolo di dipendenza induce a presumere che ne sia rimasta investita altresì la seconda con conseguente sussunzione dì essa sotto il medesimo schema negoziale


LAVORO RESO NEL SETTIMO GIORNO

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 luglio – 25 ottobre 2012, n. 18284


...Il lavoro prestato oltre il settimo giorno determina "non solo, a causa della prestazione lavorativa nel giorno di domenica, la limitazione di specifiche esigenze familiari, personali e culturali alle quali il riposo domenicale è finalizzato, bensì una distinta ulteriore "sofferenza": la privazione della pausa destinata al recupero delle energie psico - fisiche (il fondamento di questa esigenza di recupero è da ricercare in una cadenza che - anche ove non si ritenga di risalire alla Torah - è inscritta, come fatto lungamente protrattosi nel tempo, nella nostra coscienza e nella nostra biologia)" (Cass. n. 2610 del 4.2.2008).
Nell'ipotesi di protrazione del lavoro oltre il sesto giorno, l'indicata "sofferenza" del lavoratore esige tuttavia un compenso dell'oggettivo onere che, anche per il suo "valore marginale", la prestazione esige. Poiché l'onerosità è nella stessa prestazione in quanto effettuata dopo il sesto giorno consecutivo di lavoro, il relativo compenso non è (quantomeno non integralmente) dato da un riposo compensativo riconosciuto dopo il settimo giorno (in quanto tale riposo non coincide con il riposo nel settimo giorno) (cfr. Cass. n. 2610 del 2008 cit.).
In ordine alla natura giuridica che questo compenso assume, è stato escluso che esso costituisca un indennizzo o un risarcimento, dovendo piuttosto riconoscersi la sua natura retributiva (Cass. n. 2610 del 2008; conf., Cass. n. 12318 del 7.6.2011), con soluzione qui condivisa e ribadita.
È da escludere che il compenso abbia natura di indennizzo (come invece ritenuto da Cass. 16 luglio 2002 n. 10334) poiché questo presuppone generalmente l'assenza d'uno specifico precostituito rapporto fra le parti nell'ambito del quale l'evento sorge, mentre la "sofferenza" di cui si discute è diretta conseguenza dello specifico rapporto lavorativo. Ugualmente, è da escludere che il compenso costituisca il risarcimento d'un danno (come ritenuto da Cass. 11 aprile 2007 n. 8709), stante la legittimità (in quanto normativamente prevista) della continuativa protrazione della prestazione nel settimo giorno. Il compenso non è nemmeno retribuzione di lavoro straordinario (per tale conclusione, Cass. 19 maggio 2004 n. 9521), trovando causa non nell'onerosità della protrazione dell'orario giornaliero, bensì nella distinta particolare onerosità della prestazione effettuata dopo il sesto giorno consecutivo di lavoro (v. Cass. n. 2610 del 2008, conf. Cass. n. 12318 del 7.6.2011).
In conclusione, il compenso ha natura di retribuzione dell'onerosità della specifica prestazione.
Tale compenso può essere previsto dalla stessa norma collettiva e, ove la norma collettiva non lo preveda, questo deve essere determinato dal giudice, attraverso integrazione della norma (che, avendo per oggetto la specificazione delle legittime "conseguenze" del contratto, ha il suo fondamento nell'art. 1374 cod. civ.), sulla base d'una motivata valutazione che tenga conto dell'onerosità della prestazione lavorativa, e di eventuali forme di compensazione normativamente previste per istituti affini, quale il compenso del lavoro domenicale, od altro (Cass. n. 2610 del 2008).
Nella particolare fattispecie, la contrattazione collettiva del settore non aveva previsto alcuna maggiorazione né per il lavoro domenicale né per l'attività lavorativa prestata nel settimo giorno nel periodo fino al 30.4.1987 e successivamente, con l'entrata in vigore del nuovo CCNL, aveva previsto una maggiorazione pari al 20% della paga oraria per il solo lavoro domenicale (art. 76).
La Corte di appello ne ha dato atto, come pure ha riferito della inesistenza di altre clausole che prevedessero una qualche forma di remunerazione indiretta volta compensare il disagio del lavoro prestato di domenica e nel settimo giorno di lavoro.
Se la normativa collettiva successiva ha ritenuto di individuare nella suddetta maggiorazione un valido criterio remunerativo per la prestazione di lavoro domenicale (non coincidente con il riposo settimanale), la medesima ratio è ravvisabile nella prestazione lavorativa del c.d. settimo giorno. In entrambi i casi il compenso è diretto a remunerare la particolare "onerosità" o "penosità" del lavoro prestato, in un caso, con sacrificio degli interessi personali e familiari connessi alla mancata fruizione della domenica, nell'altro con il sacrificio di chi si trovi costretto a differire il riposo settimanale oltre la normale cadenza di sei giorni lavorativi, per effetto della prestazione resa nel settimo giorno, ma pur sempre con successiva fruizione del riposo compensativo.
D'altra parte anche nel precedente giurisprudenziale richiamato (Cass. n. 2610/2008 cit.) e qui condiviso, è stato espressamente osservato che, ove la normativa collettiva non lo preveda, questo specifico compenso può essere individuato alla stregua di eventuali forme di compensazione normativamente previste per istituti affini, indicando tra questi il compenso per lavoro domenicale.
Il parametro costituito dal compenso previsto per il lavoro domenicale è stato, dunque, già indicato da questa Corte quale valido criterio da assumere per una valutazione equitativa del quid pluris dovuto al lavoratore per il disagio insito nella prestazione lavorativa resa nel settimo giorno.

ESENZIONE DAL CONTRIBUTO UNIFICATO PER CONTROVERSIE DI LAVORO: IL NUOVO LIMITE REDDITUALE E' DI 32.298,99


DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 30 maggio 2002, n. 115 (in Suppl. ordinario n. 126 alla Gazz. Uff., 15 giugno, n. 139). - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (T.U. SPESE DI GIUSTIZIA) (Testo A) (1).
Art. 9, comma 1-bis
Nei processi per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie, nonche' per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, superiore a tre volte l'importo previsto dall'articolo 76, sono soggette, rispettivamente, al contributo unificato di iscrizione a ruolo nella misura di cui all'articolo 13, comma 1, lettera a), e comma 3, salvo che per i processi dinanzi alla Corte di cassazione in cui il contributo e' dovuto nella misura di cui all'articolo 13, comma 1 .

Ministero della Giustizia, decreto 2 luglio 2012; G.U. 25 ottobre 2012, n. 250
Adeguamento dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
L'importo di euro 10.628,16, indicato nell'art. 76, comma 1, del D.P.R. n. 115/02, così come adeguato con decreto del 20 gennaio 2009, e' aggiornato in euro 10.766,33.

Pertanto il nuovo limite di reddito valido per l’esenzione è portato ad €  32.298,99.

lunedì 22 ottobre 2012

RICONOSCIUTA LA MALATTIA PROFESSIONALE PER TUMORE DA UTILIZZO PROLUNGATO DEL CELLULARE


Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 12.10.2012 n° 17438

In caso di malattia professionale non tabellata la prova della causa di lavoro deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, ammettendo la possibilità dell’origine professionale della malattia insorta quando si ravvisi, nel caso concreto, un rilevante grado di probabilità. 
Nel caso di specie, il lavoratore aveva agito in giudizio deducendo che, in conseguenza dell'uso lavorativo protratto, per dodici anni e per 5-6 ore al giorno, di telefoni cordless e cellulari all'orecchio sinistro, aveva contratto una grave patologia tumorale; le prove acquisite e le indagini medico legali avevano permesso di accertare, nel corso del giudizio, la sussistenza dei presupposti fattuali dedotti, in ordine sia all'uso nei termini indicati dei telefoni nel corso dell'attività lavorativa, sia all'effettiva insorgenza di un "neurinoma del Ganglio di Gasser" - tumore che colpisce i nervi cranici, in particolare il nervo acustico e, più raramente, come nel caso di specie, il nervo cranico trigemino-, con esiti assolutamente severi nonostante le terapie, anche di natura chirurgica, praticate. (1)
(*) Riferimenti normativi: artt. 3 e 139, d.P.R. n. 1124/1965.
(1) Cfr. ex multis, Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 13 aprile 2002, n. 5352 eCass. Civ., sez. lavoro, sentenza 26 giugno 2009, n. 15080.

martedì 16 ottobre 2012

Cassa Integrazione e mancato superamento periodo di prova


Direzione generale dell’Inps - messaggio del 12 ottobre 2012, n. 166606.

Nel documento è stato affrontato il quesito se si possa applicare ai lavoratori in CIGS, assunti a tempo indeterminato e licenziati per mancato superamento del periodo di prova, l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 1 L. 604/1966, che consente al lavoratore licenziato di rientrare nel programma di cassa integrazione.
Al riguardo si è innanzitutto osservato che la giurisprudenza di legittimità considera distintamente le due fattispecie del recesso dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova, rispetto al licenziamento dal rapporto definitivo, ritenendo che le norme sulla stabilità del posto di lavoro contenute nella L. 604/1966 siano applicabili solo ai lavoratori la cui assunzione sia divenuta definitiva, mentre non possono in alcun modo regolare la fattispecie dell’assunzione in prova, giustificata, invece, dall’obiettiva necessità di valutare in concreto le capacità lavorative del soggetto (Corte cost. sentt. n. 204/1976; 172/1996; 541/2000)
. Peraltro, muovendo da tali premesse, la Consulta è giunta ad affermare che il contratto di lavoro nel periodo di prova, non seguito da assunzione, si configura come contratto a tempo determinato (Corte cost. sent. 541/2000).
Pertanto, considerate le conclusioni
 
a cui è pervenuto il giudice di legittimità delle leggi, stante l’inapplicabilità della normativa del licenziamento per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo, o giusta causa) di cui all’art. 1 L. 604/1966 ai casi di recesso del datore di lavoro per mancato superamento del periodo di prova, ne consegue che, dovendosi configurare il contratto di lavoro nel periodo di prova come contratto a tempo determinato, ad esso devono riconnettersi tutti gli effetti tipici del contratto a termine. Ne deriva che tutti i beneficiari del trattamento di cassa integrazione che non abbiano superato il periodo di prova previsto dal nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato, possono rientrare nel programma di cassa integrazione salariale ed usufruire della relativa indennità, analogamente ai lavoratori che si rioccupano con contratto a tempo determinato, con relativa applicazione delle disposizioni di cui alla circolare INPS n. 130/2010

Compatibilità fra integrazioni salariali e attività di lavoro autonomo o subordinato

Circolare INPS n. 130 del 4 ottobre 2010
 
Con la Circolare n. 130 del 4 ottobre 2010, che sostituisce, con alcune integrazioni la circolare n. 107 del 5 agosto 2010, l’INPS interviene sul tema della compatibilità delle integrazioni salariali con l’attività di lavoro autonomo o subordinato e la cumulabilità del relativo reddito.
 
In particolare, come chiarisce la Circolare in oggetto, l’attività lavorativa che può essere svolta pur continuando a percepire il trattamento di cassa integrazione guadagni è quella che sarebbe stata compatibile con il rapporto di lavoro, sospeso, che ha originato l’integrazione, come potrebbe verificarsi, ad esempio, in caso di lavoro a tempo parziale.
 
Per quanto riguarda le fattispecie di compatibilità e cumulabilità delle integrazioni salariali con le prestazioni di lavoro accessorio di tipo occasionale rese negli gli anni 2009 e 2010, trova applicazione un diverso meccanismo. In tali casi, ai fini della corretta applicazione della norma di cui al comma 1bis dell’articolo 70 del Decreto Legislativo n. 276/2003, si rende necessario che la quota di contribuzione IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti), pari a 1,30 euro per ogni buono lavoro del valore di 10 euro, affluisca alla gestione a carico della quale è posto l’onere dell’accredito figurativo correlato alle prestazioni integrative o di sostegno al reddito.

domenica 14 ottobre 2012

CONTRIBUTO UNIFICATO: LEGGE DI STABILITA' E NOVITA' PER IL 2013


Nella bozza di DDL approvata dal Consiglio dei Ministri la scorsa settimana vi sono, tanto per cambiare, nuovi aumenti del contributo unificato, alcuni manifesti, altri subdolamente nascosti in meccanismi sanzionatori.
E’ opportuno tenere presente queste modifiche per accelerare eventualmente la proposizione di azioni giudiziarie.
Il testo approvato dal CDM (che ovviamente dovrà passare al vaglio del Parlamento), prevede innanzitutto l’introduzione di un nuovo meccanismo sanzionatorio in caso di soccombenza giudiziale in grado di appello.
Il contributo unificato viene usato come deterrente.
Quando l'impugnazione, anche se proposta in via incidentale, è respinta integralmente oppure dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale.
Un obbligo che, precisa la disposizione, nasce al momento del deposito del provvedimento del giudice che ha accertato i presupposti per infliggere l’aumento.
Quindi il discrimine temporale per l’applicazione del nuovo meccanismo, dovrebbe spostarsi alla data di pubblicazione dei provvedimenti. Ciò significa che verrebbero coinvolti anche i procedimenti in corso, dovendosi avere riguardo al momento del decisum. E’ da approfondire comunque l’aspetto dell’immediata applicabilità ai procedimenti in corso.

Ed ancora. Viene introdotta un’altra norma che penalizza (anche in questo caso, tanto per cambiare) gli Avvocati in prima battuta ed i loro Clienti (eventualmente) in seconda battuta: i compensi (ove non sono però comprese le spese, ma solo gli onorari) liquidati dai giudici, e messi a carico della parte soccombente (ex art. 91 cpc), non potranno essere superiori all’importo della causa promossa.
Ciò significa ridurre ulteriormente i compensi (ovviamente la finalità è quella di salvaguardare grossi Enti o Società coinvolti in filoni come l’Enel, le Compagnie telefoniche, etc).

Altre novità per il comparto della giustizia riguardano il varo di tariffe forfettarie per le intercettazioni telefoniche e il premio agli uffici giudiziari più virtuosi (sul punto siamo curiosi di verificare se verranno redatte “classifiche” per consentire, finalmente, di esporre al pubblico ludibrio gli Uffici Giudiziari inefficienti e popolati da personale dalla salute estremamente cagionevole e da incalliti frequentatori di bar, corridoi e conventicole personali. Speriamo bene!

Inoltre è previsto un nuovo ed indiscriminato aumento del contributo unificato per tutti i tipi di procedimenti in ambito di giustizia amministrativa, già a livelli assurdi.

C’è poco da sperare nel Parlamento, per cui, come già accaduto lo scorso anno, è molto probabile un’approvazione tout court da parte del Parlamento.

I NUOVI INCENTIVI PER LE STABILIZZAZIONI E LE NUOVE ASSUNZIONI


Sterzata del Governo in favore dell'occupazione. Con un decreto interministeriale Lavoro/Economia, sono stati stanziati poco più di 230 milioni per le assunzioni di giovani (fino a 29 anni) e di donne di qualsiasi età. Si tratta di una misura straordinaria, a contenuto meramente economico. A essere premiate saranno le stabilizzazioni e/o le assunzioni che garantiscano una durata minima lavorativa di almeno 12 mesi, effettuate dalla data di entrata in vigore del Dm di regolamentazione e fino al 31 marzo 2013 (si legga anche il Sole 24 Ore dello scorso 6 ottobre).
Sarà necessario, tuttavia, tenere in considerazione la normativa comunitaria sugli aiuti di Stato; conseguentemente, gli incentivi saranno riconosciuti nel rispetto delle previsioni di cui al regolamento (CE) 1998/2006, relativo agli aiuti di importanza minore "de minimis". Gli incentivi sono modulati in ragione del diverso intervento realizzato in favore dell'occupazione. 
In particolare, è riconosciuto un importo pari a 12mila euro in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un contratto a termine (compresi i contratti di inserimento di cui al Dlgs 276/03), ovvero per ogni stabilizzazione di collaborazioni (co.co.co/pro) o di associazioni in partecipazione con apporto di lavoro. 
Le trasformazioni/stabilizzazioni dovranno realizzarsi con la stipula di contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche part-time, purché di durata non inferiore alla metà dell'orario previsto dal Ccln per i lavoratori full time. I nuovi rapporti di lavoro dovranno riferirsi a contratti ancora in essere o cessati da non più di sei mesi dalla entrata in vigore del decreto ministeriale che regolamenterà la materia. Ogni datore di lavoro può trasformare o stabilizzare al massimo 10 lavoratori fruendo dunque complessivamente di 120mila euro di aiuti (fatti salvi il de minimis e la disponibilità delle risorse). Le operazioni dovranno essere realizzate nel periodo che va dalla data di pubblicazione del Dm fino al 31 marzo 2013 e dovranno riguardare giovani fino a 29 anni e donne di qualsiasi età.
Da rilevare che il testo del decreto concede l'incentivo, pari a 12mila euro, in misura generalizzata non eseguendo alcun riproporzionamento per i lavoratori a tempo parziale. Inoltre, il provvedimento nulla dice sul mantenimento dei rapporti di lavoro premiati che potrebbero, quindi, cessare subito dopo aver ottenuto il bonus. A premio anche le assunzioni (massimo 10 per ogni datore di lavoro) di giovani e donne a tempo determinato, purché a incremento della base occupazionale degli ultimi 12 mesi. Sono previsti i seguenti importi: 3mila euro per contratti di durata non inferiore a 12 mesi; 4mila per quelli che superano i 18 mesi e 6mila per i contratti che vanno oltre i 24 mesi. Nella sua massima espansione, compatibilmente con la disponibilità di fondi e nel rispetto del "de minimis", un datore potrebbe beneficiare di 180mila euro.
La gestione degli incentivi è affidata all'Inps, a cui i datori di lavoro interessati dovranno inoltrare istanza telematica sulla scorta delle indicazioni che saranno fornite dall'Istituto. Le risorse a disposizione, (196.108.953,00 euro per il 2012 e 36.000.000 euro per il 2013), sono contingentate; conseguentemente, ogni richiesta sarà contraddistinta da un numero di protocollo che terrà conto dell'ordine cronologico di trasmissione delle istanze.
Poiché le assunzioni/stabilizzazioni che danno diritto al bonus possono spalmarsi su un periodo di oltre 5 mesi, è poco ipotizzabile il ricorso al click day. Verosimilmente l'ammissione all'incentivo avverrà in base all'ordine cronologico di presentazione dell'istanza (modalità da definire) che dovrà essere inoltrata al più presto dopo aver eseguito l'assunzione. Gli incentivi saranno erogati dall'Inps – nei limiti delle risorse stanziate – in un'unica soluzione, decorsi sei mesi, rispettivamente, dalle trasformazioni o stabilizzazioni, ovvero dalle assunzioni incrementali a tempo determinato di giovani e donne. Per la pratica attuazione delle misure, si attendono adesso le istruzioni dell'Inps che, tuttavia, non potranno intervenire prima della pubblicazione in gazzetta del provvedimento ministeriale. 
Il Sole 24 Ore

LE DIMISSIONI INCENTIVATE DAL DATORE DI LAVORO


Il datore di lavoro può favorire le dimissioni volontarie dei lavoratori erogando un incentivo economico a favore di coloro i quali presentino le dimissioni stesse entro un certo termine da lui stabilito.
In questo caso, però, la presentazione delle dimissioni rappresenta solo una proposta con riserva di accettazione da parte del datore di lavoro: il rapporto di lavoro si estingue nel momento in cui quest'ultimo, anche con comportamento concludente (per esempio liquidando le spettanze del lavoratore), aderisce a tale proposta (Cass. 22 gennaio 1994 n. 600).
Tale strumento è frequentemente utilizzato quando vi sia del personale in esubero e si voglia agevolare l'esodo volontario di uno o più dipendenti senza ricorrere alle procedure di licenziamento.
Le dimissioni incentivate, pur essendo riferibili ad una iniziativa del datore di lavoro, sono caratterizzate dalla volontà del lavoratore di risolvere il rapporto e pertanto non sono equiparabili al licenziamento per riduzione del personale. Ciò comporta che al lavoratore non spetta il diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni (Cass. 24 marzo 2004 n. 5940), né i trattamenti di disoccupazione o di mobilità e che le sue dimissioni non rientrano nel computo del numero minimo di licenziamenti necessario ad integrare la fattispecie del licenziamento collettivo (Cass. 1° marzo 2003 n. 3068).
1)  Se il datore di lavoro, con il proprio comportamento, ingenera falso affidamento sulla corresponsione di incentivi all'esodo, viene viziato il processo formativo della volontà di rassegnare le dimissioni (Trib. Ravenna 6 dicembre 2001).
2)  Se il lavoratore dà le dimissioni prima del termine concordato (ad esempio, per poter ottenere in anticipo la pensione di anzianità), l'obbligazione contrattuale sorta tra l'azienda e il lavoratore stesso deve ritenersi nulla. In tal caso, infatti, le dimissioni del lavoratore fanno venire meno la causa per la quale è stata formulata la proposta di incentivo all'esodo (Cass. 29 marzo 2007 n. 7732).
3)  Non ricorre l'ipotesi di dimissioni quando tra il lavoratore e il datore di lavoro si raggiunga un accordo per l'adesione del lavoratore alla procedura di mobilità volontaria (Cass. 7 febbraio 2011 n. 2982).