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sabato 29 settembre 2012

LICENZIAMENTO COLLETTIVO: CRITERIO DELLA PROSSIMITA' AL PENSIONAMENTO


SEZIONE LAVORO
22 GIUGNO 2012, N. 10424
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO COLLETTIVO - RIDUZIONE E CRITERI DI SCELTA DEL PERSONALE.
Accordo sindacale sui criteri di scelta - Adozione dell’unico criterio della prossimità al pensionamento - Legittimità - Condizioni.
In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale e di individuazione dei lavoratori in esubero, l’adozione, nell’accordo sindacale raggiunto in procedura di consultazione, dell’unico criterio di scelta relativo alla prossimità del lavoratore al pensionamento non è legittima, qualora tale criterio non permetta l’esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento e, quindi, non risulti applicabile senza margini di discrezionalità da parte del datore di lavoro.
In senso conforme si veda Cassazione 1938/2011 per la quale n materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali può anche essere unico e consistere nella vicinanza al pensionamento, in quanto esso permette di formare una graduatoria rigida e può essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro. Tuttavia, ove quello della vicinanza al pensionamento sia l’unico criterio prescelto e lo stesso, applicato nella realtà, si riveli insufficiente a individuare i dipendenti da licenziare, esso diviene automaticamente illegittimo se non combinato con un altro criterio di selezione interna. Per Cassazione 21138/2008, in tema di procedura di mobilità, la previsione, di cui al nono comma dell’art. 4 della legge 223/1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con cui dà inizio alla procedura, deve dare una “puntuale indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva. Ne consegue che, in caso di mancato accordo con le Organizzazioni sindacali, i criteri di scelta indicati dalla norma (anzianità, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive) devono essere applicati in concorso tra loro.

giovedì 27 settembre 2012

Risarcimento danni da licenziamento illegittimo - omessa iscrizione del lavoratore nelle liste di collocamento - concorso di colpa del danneggiato

La Suprema Corte, con la recente sentenza 21 settembre 2012, n. 16076, ha ribadito che le conseguenze del licenziamento illegittimo devono tener conto del comportamento tenuto dal lavoratore successivamente alla risoluzione del rapporto. Non è pensabile che il lavoratore resta inerte per anni confidando nel fatto che l'azienda che non lo ha reintegrato gli dovrà corrispondere a vita la retribuzione. La Corte, reiterando un orientamento già altre volte espresso, perfettamente motivato con l'applicazione di principi validi in generale per il concorso di colpa del danneggiato nella produzione di un fatto dannoso, ha chiarito che vi è un limite al risarcimento de il lavoratore non prova di aver fatto il possibile per limitare gli effetti pregiudizievoli posti a base della richiesta risarcitoria: primo tra tutti l'iscrizione nelle liste di collocamento per i lavoratori inoccupati.

In tal modo viene costituito un argine di matrice giurisprudenziale che si affianca a quello previsto, per limitate e ben precise ipotesi dalla novella dell'art. 18 SdL.
Di seguito la parte della sentenza di maggiore interesse.



Al riguardo va rimarcato che, come ribadito di recente da Cass. 11 marzo 2010 n. 5862, l'elaborazione giurisprudenziale di questa Corte sulla interpretazione dell'art. 1227 c.c. è pervenuta ad affermare i seguenti principi 1) tale articolo contiene ai corami 1 e 2 due distinte norme che regolano fattispecie diverse (Cass. 14 gennaio 1992 n. 320; Cass. 22 agosto 2003 n. 12352): il comma 1 regola il concorso del danneggiato nella produzione del fatto dannoso ed ha come conseguenza una ripartizione di responsabilità, rappresentando un'ipotesi particolare della più generale previsione del concorso di più autori del fatto dannoso (art. 2055 c.c.), nel quale uno dei coautori è lo stesso danneggiato. Il comma 2 contempla una situazione, del tutto diversa, di danno causato dal solo debitore, e quindi non concerne problemi di nesso causale, ma solo di estensione o di evitabilità del danno; si tratta di conseguenze dannose che si sono effettivamente verificate, ma che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la ordinaria diligenza. 2) Quanto al contenuto dell'ordinaria diligenza esigibile, l'art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche ad evitare le conseguenze dannose. La norma che onera il danneggiato ad uniformarsi ad un comportamento attivo ed attento dell'altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa "evitabilità" del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell'art. 1175 c.c., applicabile ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l'utilità dell'altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un'apprezzabile sacrificio a suo carico (Cass. 7 aprile 1983 n. 2468; Cass. 14 gennaio 1992 n. 320 cit.).
3) Il limite alla esigibilità del comportamento attivo è costituito dalla "ordinaria" e non "straordinaria" diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell' evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, come esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici (Cass. 15 luglio 1982 n. 4174; Cass. 14 novembre 1978 n. 5243; Cass. 25 gennaio 1975 n. 304; Cass. 6 luglio 2002 n. 9850). In applicazione degli esposti principi alla materia in oggetto, questa Corte ha affermato che il lavoratore, licenziato senza giusta causa, deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre, ex art. 1127 c.c., il pregiudizio subito (ex multis Cass. 18.2.1980 n. 1208; Cass. 11 novembre 2002 n. 15838; Cass. 22 agosto 2003 n. 12352).
La Corte di Appello ha fatto corretta applicazione di tale principio,in quanto ha basato il proprio decisum sul rilievo secondo il quale non era risultato che, dopo il licenziamento, il lavoratore si era iscritto nelle liste di collocamento ovvero nelle liste dei disoccupati aspiranti ad un posto di lavoro, né che, adoperandosi per la ricerca di esso, era rimasto nondimeno privo di occupazione.
Siffatta argomentazione è conforme al principio secondo cui, in tema di risarcimento del danno cui è tenuto il datore di lavoro in conseguenza del licenziamento illegittimo e con riferimento alla limitazione dello stesso ex art. 1227 c.c., comma 2, l'onere della ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione deve ritenersi assolto dal lavoratore con l'iscrizione nelle liste di collocamento, mentre spetta al debitore provare ulteriori elementi significativi della mancanza dell' ordinaria diligenza. (Cass. 11 maggio 2005 n. 9898 e Cass.11 marzo 2010 n. 5862 cit.).

Riforma Fornero: l'applicabilità al pubblico impiego



(Nota Dipartimento funzione pubblica 25/09/2012, n. 38226)

Evidenzio una nota che, a parer mio, ha una portata notevole sul futuro assetto dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica (quindi tutto sommato "parte in causa") ritiene che la Riforma del mercato del Lavoro (Legge n. 92/2012) non si applichi alla Pubblica amministrazione, che può continuare a conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza di determinati presupposti di legittimità.
La Provincia di Bari ha chiesto un parere alla Funzione Pubblica in merito all’applicazione alle pubbliche amministrazioni della Riforma del mercato del lavoro (Legge n. 92/2012) dovendo assicurare il servizio di assistenza specialistica in favore di alcuni alunni disabili che frequentano le scuole secondarie di II grado mediante la stipula di contratti a prestazione professionale con partita I.V.A
L’art. 1, comma 26, Legge n. 92/2012 ha introdotto l’art. 69 bis al D.Lgs. n. 276/2003 e lo stesso art. 1, ai commi 7 e 8, contiene alcune previsioni per i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e stabilisce che:
- Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle PP.AA. di cui all'art. 1, c. 2, D.lgs. n. 165/2001, in coerenza con quanto disposto dall'art. 2, c. 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all'art. 3 del medesimo decreto legislativo.- Al fine dell'applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
Posto quanto sopra, la Funzione Pubblica evidenzia che la normativa in questione non riguarda "rapporti di lavoro dei dipendenti", ma prestazioni professionali e collaborazioni a progetto, che rientrano nell'ambito del lavoro autonomo.
Inoltre, il D.Lgs. n. 276/2003, (c.d. Legge Biagi) non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale (art. 1, comma 2), mentre l’art. 86, comma 8, fa rinvio ad iniziative del Ministro della funzione pubblica per un’eventuale armonizzazione.
Pertanto, considerato che le disposizioni sulle collaborazioni contenute nel citato decreto non contengono una previsione di immediata applicabilità nei confronti delle pubbliche amministrazioni, la relativa normativa riguarda solo i rapporti di lavoro tra privati mentre per le PP.AA. continua ad applicarsi il disposto dell'art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, comma 6, in virtù del quale, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza di determinati presupposti di legittimità.
Infine, conclude la nota della Funzione Pubblica, per le collaborazioni con le pubbliche amministrazioni continua ad applicarsi il regime ordinario dell'onere della prova nel rito del lavoro.
Pertanto si ritiene che l'attesa armonizzazione della nuova disciplina, o meglio della complessiva disciplina in tema di lavoro subordinato privato, non potrà incidere sull'importante aspetto delle forme di precariato nel pubblico impiego.


venerdì 14 settembre 2012

Part-time - Nullità delle c.d. clausole elastiche

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 giugno - 7 settembre 2012, n. 14999

Quanto alla variazione di orario e alla connessa sanzione del 3 marzo 2006 (10 giorni di sospensione), l'impugnata sentenza, favorevole alla dipendente, è corretta stante l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte in ordine alle cosiddette clausole elastiche. Cfr. Cass. civ., sez. lav., 23 gennaio 2009, n. 1721, che ha affermato che le c.d. clausole elastiche, che consentono al datore di lavoro di richiedere “a comando” la prestazione lavorativa dedotta in un contratto part - time, sono illegittime, atteso che l'esigenza della previa pattuizione bilaterale della riduzione di orario comporta - stante la ratio dell'art. 5 l. n. 863 del 1984 - che, se le parti concordano per un orario giornaliero inferiore a quello ordinario, di tale orario debba essere determinata la collocazione nell'arco della giornata e che, se parimenti le parti convengono che l'attività lavorativa debba svolgersi solo in alcuni giorni della settimana o dei mese, anche la distribuzione di tali giornate lavorative sia previamente stabilita; dall'accertata illegittimità di tali clausole non consegue l'invalidità del contratto part - time, né la trasformazione in contratto a tempo indeterminato, ma solo l'integrazione del trattamento economico (ex art. 36 cost. e 2099, 2 comma, c.c.), atteso che la disponibilità alla chiamata del datore di lavoro, di fatto richiesta al lavoratore, pur non potendo essere equiparata a lavoro effettivo, deve comunque trovare adeguato compenso, tenendo conto della maggiore penosità ed onerosità che di fatto viene ad assumere la prestazione lavorativa per la messa a disposizione delle energie lavorative per un tempo maggiore di quello effettivamente lavorato. Da ciò si desume anche l'illegittimità - correttamente ritenuta dalla Corte d'appello - della modifica unilaterale dell'orario (part - time) di lavoro ad opera del datore di lavoro.
Ulteriore conseguenza è l'illegittimità della sanzione irrogata alla ricorrente in ragione del rifiuto nel nuovo orario di lavoro, come modificato unilateralmente dal Comune.

mercoledì 12 settembre 2012

Licenziamento per g.m.o. - non basta la "crisi aziendale"

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 luglio - 10 settembre 2012, n. 15104

"in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro è tenuto a dimostrare anche la sussistenza del nesso causale che lega la misura organizzativa con la soppressione delle mansioni svolte dal ricorrente e non solo l'esistenza di una crisi aziendale.
Va infatti rimarcato che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 della legge 15 luglio 1996, n. 604, è determinato non da un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad esigenze collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo (Cass. 26 settembre 2011 n. 19616; Cass. 17 marzo 2001 n. 3874)"

lunedì 10 settembre 2012

LA DISCRIMINAZIONE DI GENERE


Ai sensi del D. Lgs. 11 aprile 2006, n.198 (in Suppl. ordinario n. 133 alla Gazz. Uff., 31 maggio, n. 125). - Codice delle pari opportunità tra uomo e donna – costituiscono disciriminazioni:
a)       qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento che produca un effetto pregiudizievole, discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro in situazione analoga (c.d. discriminazione diretta: art. 25 D.Lgs. 198/2006);
b)       una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri che mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso (c.d. discriminazione indiretta) (art. 25 D.Lgs. 198/2006; art. 2 n. 2 Dir. CE 76/207/CEE);
c)       ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, maternità o paternità (anche adottive: art. 25, c. 2 bis, D.Lgs. 198/2006);
d)       le molestie (art. 26 D.Lgs. 198/2006), che consistono in quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, o a connotazione sessuale (c.d. molestia sessuale), aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (c.d. molestia ambientale).
All'interno del concetto di discriminazione diretta rientrano le forme di discriminazione c.d. occulta o dissimulata che colpiscono tutti gli appartenenti ad un sesso, escludendoli globalmente da alcuni benefici o opportunità.
 La legge prende in esame, inoltre, la discriminazione collettiva, cioè un comportamento o un atto che lede l'interesse di più lavoratori, anche se non individuabili in modo immediato e diretto. Tale discriminazione può riguardare un comportamento suscettibile di avere effetti discriminatori su una serie di lavoratori già individuati o individuabili in un momento successivo.

sabato 8 settembre 2012

Part-time nullo: le conseguenze contributive



La Suprema Corte, richiamando un proprio consolidato orientamento, ribadisce che in caso di contratto a tempo parziale dichiarato nullo, il datore di lavoro è tenuto anche al versamento della contribuzione di fatto evasa beneficiando del regime di favore.


Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 maggio - 6 settembre 2012, n. 14963
Presidente Vidiri – Relatore Filabozzi
 


La prima parte del quesito di diritto formulato da parte ricorrente deve, infatti, trovare risposta nel principio già affermato dalle sezioni unite di questa S.C. con la sentenza n. 12269 del 2004 - cui hanno dato seguito, fra le altre, Cass. n. 16670/2004, Cass. n. 11011/2008, Cass. n. 52/2009 - secondo cui al contratto di lavoro a tempo parziale, che abbia avuto esecuzione pur essendo nullo per difetto di forma, non può applicarsi la disciplina in tema di contribuzione previdenziale prevista dall'art. 5, quinto comma, d.l. n. 726 del 1984, convertito in legge n. 863 del 1984, ma deve invece applicarsi il regime ordinario di contribuzione prevedente anche i minimali giornalieri di retribuzione imponibile ai fini contributivi, e così anche la disciplina di cui all'art. 1 d.l. n. 338 del 1989, convertito in legge n. 389 del 1989, tenuto conto, da un lato, che il sistema contributivo regolato dal predetto art. 5, comma quinto, d.l. n. 726 del 1984 è applicabile, giusta il tenore letterale della norma, solo in presenza di tutti i presupposti previsti dai precedenti commi ed è condizionato, in particolare, dall'osservanza dei prescritti requisiti formali, e considerato, dall'altro, che risulterebbe privo di razionalità un sistema che imponesse, per esigenze solidaristiche, a soggetti rispettosi della legge l'osservanza del principio del minimale, con l'applicazione ad essi di criteri contributivi da parametrare su retribuzioni anche superiori a quelle in concreto corrisposte la lavoratore, e nel contempo esentasse da vincoli quanti, nello stipulare il contratto di lavoro "part time", mostrano, col sottrarsi alle prescrizioni di legge, di ricorrere a tale contratto particolare per il perseguimento di finalità non istituzionali, agevolando così di fatto forme di lavoro irregolare.

venerdì 7 settembre 2012

E' illegittimo licenziare per il rifiuto del dipendente alla trasformazione del rapporto in tempo parziale


Con sentenza n. 14833 del 4 settembre 2012, la Cassazione ha affermato la illegittimità di un licenziamento comminato dal datore di lavoro per il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time.
La Suprema Corte ha, infatti, specificato che non è ammissibile, come motivazione del licenziamento, la scarsa flessibilità del lavoratore nell'accettare nuovi orari di lavoro.

Omesso pagamento della retribuzione - reazione del lavoratore


Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 aprile – 5 settembre 2012, n. 14905

Si ribadisce che il mancato pagamento delle retribuzioni da parte del datore di lavoro, pur se motivate da grave crisi economica, giustifica l’assenza dal lavoro e, pertanto, il rifiuto della prestazioni lavorative da parte del dipendente. L’ipotesi viene ricondotta dalla SC allo schema dell’eccezione di inadempimento. Ovviamente la valutazione del caso concreto e della ricorrenza della proporzionalità è rimessa al Giudice.

Con specifico riguardo alla eccezione di inadempimento, questa Corte (cfr. Cass. n. 6564/2004, cui adde Cass. n. 6656/2005, Cass. n. 13969/2006) ha già affermato che nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca a giustificazione del proprio rifiuto di adempiere l'inadempimento o la mancata offerta di adempiere dell'altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche di quello logico, essendo necessario stabilire se vi sia relazione causale ed adeguatezza, nel senso della proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, tra l'inadempimento dell'uno e il precedente inadempimento dell'altro. Peraltro, il rifiuto di adempiere, come reazione al primo inadempimento, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata.
7.- Questi principi di carattere generale trovano applicazione anche nell'ordinamento lavoristico, essendo il negozio che da vita al rapporto di lavoro subordinato un contratto sinallagmatico di scambio, e, in proposito, va richiamato l'ulteriore principio già enunciato in materia da questa Corte, secondo cui non costituisce giusta causa di licenziamento il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione quando esso sia motivato dall'inadempimento della controparte o dalla mancanza di una reale offerta di adempimento, salvo il limite della buona fede, con la conseguenza che non può considerarsi ingiustificato o contrario a buona fede il rifiuto di adempiere del lavoratore a fronte del mancato pagamento delle retribuzioni a causa delle difficoltà economiche in cui versa i datore di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. n. 11181/2002).

mercoledì 5 settembre 2012

Omessa la visita medica per l'accertamento dell'idoneità a specifiche mansioni: ne risponde (con l'arresto) in via principale il Responsabile della sicurezza


Con sentenza in data 22 settembre 2009 il tribunale di Ascoli Piceno condannava G.A. n. (omissis) , alla pena di tre mesi di arresto in quanto riconosciuto colpevole del reato previsto dagli artt. 81 c.p., 14 e 18 bis d.lgs. n. 66 del 2003 per aver, quale responsabile della società datrice di lavoro (Gruppo executive società consortile Srl) omesso di far sottoporre i lavoratori D.G.A. e D.C.P. alla prescritta visita medica di accertamento di idoneità al lavoro in turni notturni.
La Corte di Cassazione, sez. III Penale, con sentenza 6 giugno – 30 agosto 2012, n. 33521, ha ribadito: “la corte (Cass., sez. 4, 27/05/2011 - 14/07/2011, n. 27738) ha affermato che, laddove ci sia un responsabile della sicurezza, è quest'ultimo che deve attivarsi per il rispetto delle norme antinfortunistiche. Quindi è rilevante accertare se in azienda vi sia stato, o no, un responsabile della sicurezza, fermo restando comunque che il datore di lavoro ha un generale obbligo di vigilare in ordine al corretto espletamento da parte di quest'ultimo delle attività a lui delegate e concernenti l'adozione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro (cfr. in proposito, quanto all'obbligo del datore di lavoro, Cass., sez. 4, 12/04/2005 - 01/06/2005, n. 20595).
Il soggetto penalmente per eseguibile è quindi principalmente il Responsabile della sicurezza.