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venerdì 22 novembre 2013

CONTRATTI A TERMINE ILLEGITTIMI: LA CONVERSIONE OPERA ANCHE QUANDO SI TRATTA DI SOCIETA' IN HOUSE

Con sentenza n. 23702/2013 la Cassazione ha affermato che lo scopo perseguito dall’Ente finalizzato a fornire un servizio pubblico non è di per se stesso elemento sufficiente ad escludere la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato se l’attività viene esercitata con regole di natura privatistica (nel caso di specie un’azienda farmaceutica comunale costituita in SpA), in particolare per quel che attiene la disciplina dei rapporti di lavoro.

A questo link la sentenza integrale.

giovedì 21 novembre 2013

DATAZIONE DEL LICEZIAMENTO: VALE LA DATA DI SPEDIZIONE E NON QUELLA DI RICEZIONE

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 1° ottobre – 19 novembre 2013, n. 25917

Più precisamente la Corte ribadisce che, ai fini del rispetto del termine dei 5 giorni di spatium deliberandi minimo tra contestazione disciplinare e applicazione della sanzione, occorre avere riguardo  al momento in cui è stata esternata dal datore di lavoro la determinazione di licenziare il dipendente, vale a dire la data di spedizione della lettera di licenziamento (ovviamente se inviata a mezzo osta), e non già a quello in cui tale determinazione è venuta a conoscenza del medesimo (ricezione della lettera).

martedì 19 novembre 2013

LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO - I CRITERI RIBADITI DALLA SUPREMA CORTE

Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 12.06.2013 n° 14758

Ricorre l'ipotesi dello scarso rendimento qualora sia risultato provata sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione dei lavoratori e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività fra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (cfr., fra le altre, Cass. 22 febbraio 2006 n. 3876; Cass. 22 gennaio 2009 n. 1632).
In queste ipotesi, la continuazione del rapporto si risolve in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
La gravità dell'inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicchè l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali.

Inoltre va assegnato rilievo all'intensità dell'elemento intenzionale, alle modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso e alla tipologia del rapporto medesimo.

domenica 10 novembre 2013

Anche per il collaboratore opera il divieto di concorrenza

Cassazione civile, sez. lavoro, 21 marzo 2013, n. 7141

Sebbene la legge (art. 2125 cod. civ.) non imponga al lavoratore autonomo e parasubordinato un dovere di fedeltà, tuttavia il dovere di correttezza della parte in un rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.) e il dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.) vietano alla parte di un rapporto di collaborazione professionale di nuocere all’altra, sì che l’obbligo di astenersi dalla concorrenza permea, come elemento connaturale, ogni rapporto di collaborazione economica.
Il divieto di concorrenza nel rapporto di lavoro parasubordinato non è, perciò, riconducibile direttamente all’art. 2125 c.c., che disciplina il relativo patto di non concorrenza per il lavoratore subordinato alla cessazione del contratto, bensì alla previsione di cui all’art. 2596 cod. civ., che consente l’adozione di specifiche misure in tal senso, in sede contrattuale.
Art. 2596 cod. civ. “Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni.
Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio”.

La ratio iegis, che, come emerge anche dai lavori preparatori alla stesura del codice civile, consiste, essenzialmente, nell’intenzione del legislatore di “evitare una eccessiva compressione della libertà individuale nel perseguimento di un’attività economica” (così, testualmente, la relazione ministeriale al codice civile, n. 1045, richiamata da Cass. 988/2004 cui si rinvia per l’ampia motivazione).
Coerente con la ratio prospettata, oltre che con la lettera della disposizione in esame (art. 2596 c.c.), è l’imposizione di condizioni di validità ed efficacia alle limitazioni pattizie della concorrenza, in funzione di tutela della libertà di concorrenza che costituisce, da un lato, espressione della libertà di iniziativa economica e persegue, dall’altro, la protezione dell’interesse collettivo, impedendo restrizioni eccessive della concorrenza e della positiva influenza che ne deriva alla qualità dei prodotti ed al contenimento dei prezzi. Ne deriva la scelta del legislatore per cui le attività economiche da considerare in concorrenza tra loro, ai fini e per gli effetti di cui all’art. 2596 c.c., vanno identificate in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi e/o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato.