Pagine

mercoledì 12 giugno 2013

ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 31 MAGGIO 2013: IL COMMENTO DEL PROF. ICHINO

Riporto di seguito il breve (ma come al solito illuminante) commento all'accordo a firma del Prof. Ichino.
1. Il nuovo accordo interconfederale completa l’opera avviata con l’accordo del 28 giugno 2011, che aveva definito i criteri di rappresentatività per la contrattazione aziendale e aveva introdotto e regolato la derogabilità del contratto nazionale ad opera di quello decentrato. Ora vengono definiti - in modo per molti aspetti analogo – i criteri applicabili per la selezione dell’ “agente contrattuale” di livello nazionale. È un fatto in sé molto positivo, perché conferma la volontà di un recupero di vitalità da parte del sistema italiano delle relazioni industriali. Inoltre perché conferma la capacità del sistema stesso di darsi una cornice di regole entro cui il pluralismo sindacale possa esprimersi senza generare paralisi.
2. La nuova “cornice” consiste in questo: l’accordo impegna tutte le associazioni firmatarie a riconoscere come valido e applicabile erga omnes, in ciascun settore, il contratto nazionale stipulato da una coalizione sindacale il cui indice di rappresentatività sia superiore al 50 per cento. L’indice è costruito sulla media tra la percentuale degli iscritti rispetto al totale degli iscritti e la percentuale dei voti rispetto al totale dei voti validi espressi nelle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie degli ultimi tre anni nello stesso settore (al negoziato sono ammesse le associazioni sindacali il cui indice non sia inferiore al 5 per cento). Si osservi, però, che il nuovo accordo non vieta la stipulazione di contratti collettivi nazionali da parte di una coalizione sindacale che non raggiunga la soglia richiesta di rappresentatività: i cosiddetti “contratti separati”; si limita a imporre l’accettazione da parte di tutti i sindacati firmatari del contratto stipulato da una coalizione che abbia il 50 per cento più uno di rappresentatività.
3. Il modo in cui è costruito l’indice di rappresentatività rende problematica la recezione in norma legislativa del nuovo sistema delineato da questo accordo interconfederale: l’ordinamento statuale non può, infatti, attribuire peso uguale a tessere sindacali suscettibili di essere distribuite dalle diverse associazioni a prezzi molto diversi, nonché in forme molto diverse e non ugualmente controllabili. Si pensi, per esempio, al caso di un sindacato che opti per l’iscrizione in rete invece che mediante “delega” del lavoratore al datore per la trattenuta sulla busta-paga: il legislatore statuale non potrebbe evidentemente escludere questa forma di reclutamento, la quale però è esclusa dall’accordo interconfederale (questo infatti fa riferimento esclusivo alle “deleghe” censite dall’Inps). Né il legislatore statuale potrebbe imporre una quota minima di iscrizione; ma non può evidentemente essere attribuito lo stesso peso a una tessera sindacale che costa al lavoratore l’1 per cento della sua retribuzione, quindi anche 150 o 200 euro annui, e a una tessera distribuita per 10 euro o anche meno.
4. Un altro problema nasce dal fatto che il criterio di rappresentanza indicato dal nuovo accordo interconfederale è riferito ai soli sindacati dei lavoratori, non alle associazioni imprenditoriali. L’accordo, dunque, non risolve la questione delle imprese che, non aderendo all’associazione imprenditoriale (affiliata a Confindustria) firmataria del contratto collettivo, intendano sottrarsi al suo campo di applicazione: si pensi al caso delle imprese del Gruppo Fiat, che dal 2012 sono uscite. Queste imprese, ovviamente, dovranno considerarsi “fuori legge” rispetto al cosiddetto “ordinamento intersindacale” fondato sull’accordo interconfederale, ma non potranno solo per questo considerarsi “fuori legge” rispetto all’ordinamento statuale.
5. Alcuni sindacati autonomi (tra i quali il FISMIC) hanno protestato contro questo accordo interconfederale, considerandolo come un tentativo di metterli fuori-gioco con l’attivazione della soglia minima del 5 per cento per la partecipazione ai negoziati nazionali. In proposito va detto, però,  che l’adesione al sistema delineato dall’accordo interconfederale del giugno 2011 consente a questi sindacati di competere con (o affiancarsi a) quelli aderenti alle confederazioni maggiori sul piano della contrattazione aziendale, alla quale viene riconosciuta una amplissima competenza, anche in deroga al contratto collettivo nazionale di settore.
6. Altri (tra questi la Confederazione Italiana di Unione delle Professioni Intellettuali-CIU) hanno denunciato invece il rischio che il nuovo accordo interconfederale abbia l’effetto di precludere drasticamente, nella contrattazione collettiva di livello nazionale, l’affermarsi del sindacalismo di categoria o “di mestiere”: in particolare quello dei “quadri”. Qui va detto, tuttavia, che nel momento in cui un sindacato di mestiere riuscisse ad avere la forza necessaria per imporre alla controparte la negoziazione di un contratto nazionale questo automaticamente farebbe nascere una nuova categoria contrattuale, prima inesistente: una sorta di piccola rivoluzione nel sistema delle relazioni industriali che è sempre stata di difficile attuazione ma non impossibile – come dimostra il caso dei piloti d’aereo – e tale resterù anche nel vigore del nuovo contratto interconfederale.
7. Vedremo nei fatti se e come questa nuova cornice di regole per la contrattazione nazionale di settore funzionerà. Una cosa, però. occorre evitare: che questo nuovo accordo interconfederale sulla contrattazione collettiva nazionale venga utilizzato in chiave antagonistica rispetto all’accordo interconfederale del giugno 2011, per una sorta di revanche della contrattazione collettiva nazionale di settore contro la contrattazione aziendale. Certamente non è stato questo l’intendimento della Cisl e della Uil nel firmare il nuovo accordo. Né questo deve frenare o tantomeno bloccare il dibattito sull’introduzione nel nostro ordinamento di un salario orario minimo: uno strumento, questo, del quale - a mio avviso – è sempre più evidente la necessità proprio in funzione di una maggiore apertura degli spazi di derogabilità del contratto nazionale da parte di quello aziendale, proprio in materia di livelli retributivi.

sabato 1 giugno 2013

Contratti a termine per sostituzione di lavoratori: il nuovo intervento della Consulta

La Corte Costituzione, con la sentenza n. 107/2013, depositata il 29 maggio 2013, interviene nuovamente sul tema della specificazione delle ragioni sostitutive poste a base di contratti a termine e sulla necessità o meno di indicazione analitica dei lavoratori sostituiti.
Come noto la questione è al centro di un nutritissimo contenzioso che riguarda soprattutto Poste Italiane e le autostrade (Autostrade Meridionali e Tangenziale di Napoli per il foro napoletano).
Da più parti si è osservato, a mio avviso giustamente, che la complessiva posizione assunta dalla Giurisprudenza sia eccessivamente ed immotivatamente di favore per le grandi aziende, per le quali vengono tollerati criteri ben più elastici rispetto a quelli rigorosamente applicati nel caso di imprese di medie o piccole dimensioni.
La Consulta tenta (senza riuscirci) di dissipare i sospetti, legittimando la possibilità per tali aziende di ovviare alla indicazione dei lavoratori sostituti ricorrendo ad altri criteri, elencati in maniera generica. 
Ovviamente, come noto, il tutto va inquadrato tenendo conto dell'evoluzione della normativa tra la 230/62 e la 368/2001 che è oggetto della verifica della Consulta.
L'intera sentenza a questo link.
Le parole della Corte, nel passaggio a mio avviso di maggiore concretezza, sono le seguenti:

Il legislatore, prescrivendo l’onere di specificazione delle ragioni sostitutive per poter assumere lavoratori a tempo determinato, ha imposto una regola di trasparenza. Ha precisato, cioè, che occorre dare giustificazione della sostituzione del personale assente con diritto alla conservazione del posto con una chiara indicazione della causa.
In tale prospettiva, il criterio della identificazione nominativa del personale sostituito è da ritenere certamente il più semplice e idoneo a soddisfare l’esigenza di una nitida individuazione della ragione sostitutiva, ma non l’unico.
Non si può escludere, infatti, la legittimità di criteri alternativi di specificazione, sempreché essi siano rigorosamente adeguati allo stesso fine e saldamente ancorati a dati di fatto oggettivi. E così, anche quando ci si trovi – come ha rilevato la Corte di cassazione – di fronte ad ipotesi di supplenza più complesse, nelle quali l’indicazione preventiva del lavoratore sostituito non sia praticabile per la notevole dimensione dell’azienda o per l’elevato numero degli avvicendamenti, la trasparenza della scelta dev’essere, nondimeno, scrupolosamente garantita. In altre parole, si deve assicurare in ogni modo che la causa della sostituzione di personale sia effettiva, immutabile nel corso del rapporto e verificabile, ove revocata in dubbio.
La giurisprudenza di legittimità, muovendo da tale assunto, ha preso solo atto della «illimitata casistica che offre la realtà concreta delle fattispecie aziendali» e ne ha desunto la necessità di tenere conto delle peculiarità dei molteplici contesti organizzativi ai fini dell’assolvimento dell’onere del datore di lavoro di specificare le esigenze sostitutive nel contratto di lavoro a tempo determinato. In conseguenza, l’apposizione del termine per “ragioni sostitutive” è stata ritenuta legittima anche quando, avuto riguardo alla complessità di certe situazioni aziendali, l’enunciazione dell’esigenza di sopperire all’assenza momentanea di lavoratori a tempo indeterminato sia accompagnata dall’indicazione, in luogo del nominativo, di elementi differenti, quali l’ambito territoriale dell’assunzione, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni e il diritto alla conservazione del posto dei dipendenti da sostituire, che permettano ugualmente di verificare l’effettiva sussistenza e di determinare il numero di questi ultimi (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze n. 1576 e n. 1577 del 2010, cit.).