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mercoledì 29 gennaio 2014

Licenziamento deciso entro l'anno dal matrimonio e attuato successivamente - nullità

CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 dicembre 2013, n. 27055


Lavoro subordinato - Matrimonio - Divieto di licenziamento - Presunzione ex art. 1, terzo comma, della legge n. 7 del 1963 - Licenziamento deciso nel periodo indicato dalla legge - Attuazione successiva a tale periodo

. L’art. 1 legge n. 7 del 1963 dispone " del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa del matrimonio" specificando al comma 3 "si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio.... a un anno dopo la celebrazione., sia stato disposto per causa di matrimonio". Il termine " disposto" non lascia adito a dubbi di sorta, così come correttamente sottolineato nella sentenza impugnata, che la presunzione di nullità riguarda ogni recesso che sia stato " deciso" nell’arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la " decisione " di recesso sia stata attuata. Una diversa interpretazione porterebbe del resto a soluzioni in contrasto non solo con la formulazione letterale della norma ma anche con ratio della disciplina finendo con il consentire abusi e l’aggiramento della normativa in parola. Non sussiste alcune diversità di ratio rispetto alla disciplina di cui alla legge n. 1204/1971 in materia di tutela della lavoratrice madre interpretata da questa Corte con la sentenza n. 1526/1998 (richiamata nella sentenza impugnata) nel senso dell’irrilevanza del momento di operatività del recesso (e quindi del periodo di preavviso), essendo prevalente la data in cui questo è stato deciso. Si tratta di provvedimenti legislativi che nel loro insieme tendono a rafforzare la tutela della lavoratrice in momenti di passaggio "esistenziale" particolarmente importanti da salvaguardare attraverso una più rigorosa disciplina limitativa dei licenziamenti che sgravi la lavoratrice dall’onere della prova di una discriminazione addossando al datore di lavoro l’onere di allegare e documentare l’esistenza di una legittima causa di scioglimento del rapporto. I due provvedimenti legislativi sono palesemente accumunati da questo medesimo scopo di ordine costituzionale ed anche dalle stesse tecniche di tutela. 

Licenziamenti nulli non soggetti a termine decadenziale di impugnativa

" il termine di 60 gg. per l’impugnazione del licenziamento previsto dall’art. 6 legge n. 604/66 deroga al principio generale- desumibile dagli artt. 1421 e 1422 c.c.- secondo il quale, salvo disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l’azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne consegue che, sotto questo profilo, la disposizione di cui al citato art 6 legge n. 604/66 è da considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile, neanche in analogica, ad ipotesi di nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione di cui alla citata legge n. 604/66." (cass. n. 3022/2003; n. 610/2000 ).

Danni da esposizione ad amianto - gli oneri di prova fissati dalla Cassazione



CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 gennaio 2014, n. 1477

Lavoro - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Esposizione all’amianto - Fibrosi polmonare - Mancanza di misure generiche di prudenza - Tutela della salute dal rischio espositivo - Risarcimento dei danni

Nesso causale tra ambiente di lavoro malsano e malattia.

"...trova applicazione "la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni" (v. Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 3-5-2003 n. 6722).
Del resto, come è stato costantemente affermato in generale, in ambito civilistico la prova del nesso causale consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale ossia del "più probabile che non" (v. fra le altre Cass. 16-1-2009 n. 975, cfr. Cass. 16-10-2007 n. 21619, Cass. 11-5-2009 n. 10741, Cass. 8-7-2010 n. 16123, Cass. 21-7-2011 n. 15991).
In particolare, poi, è stato anche precisato che "nel caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all'origine professionale della malattia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, e, se questa può essere data anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie (essendo impossibile, nella maggior parte dei casi, ottenere la certezza dell’eziologia), è necessario pur sempre che si tratti di "probabilità qualificata", da verificarsi attraverso ulteriori elementi (come ad esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale (v. Cass. 12-5-2004 n. 9057).
Nella fattispecie la Corte territoriale sulla base delle valutazioni e delle conclusioni della CTU, applicando i principi sopra richiamati, legittimamente ha ritenuto provato nella specie il nesso causale tra l’esposizione professionale all’amianto e la genesi della patologia polmonare contratta, non essendo, d’altra parte, emerse rilevanti cause interruttive del detto nesso causale.
In particolare la Corte non soltanto ha fatto proprie le valutazioni epidemiologiche dell’ausiliare, bensì ha anche accertato, in base alla prova testimoniale, che il B., pur avendo lavorato soltanto per tre anni presso la N. S. "è stato esposto al rischio di inalazione di fibre di amianto in modo massiccio quale addetto ai vari lavori tra i quali principalmente la miscelazione", in un ambiente privo delle necessarie misure di sicurezza all’epoca già conosciute, quali la segregazione degli ambienti polverosi, l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e l’abbattimento delle polveri con l’umidificazione".

Sulla prevenibilità dell’evento dannoso.

"Come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, la responsabilità del datore di lavoro di cui al citato art. 2087 è di natura contrattuale, per cui "ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo" (v. Cass. 17-2-2009 n. 3788, Cass. 17-2-2009 n. 3786, Cass. 7-3- 2006 n. 4840, Cass. 24-7-2006 n. 16881, Cass. 6-7-2002 n. 9856, Cass. 18-2- 2000 n. 1886).
In sostanza "la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori" (v. tra le altre Cass. 19-4-2003 n. 6377, Cass. 1-10-2003 n. 16645).
In particolare, con riguardo all’inalazione di polveri di amianto questa Corte ha precisato che "la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia." (v. da ultimo Cass. 3.8.2012 n. 13956, cfr. Cass. 1-2-2008 n. 2491, Cass. 14-1-2005 n. 644).
Del resto, come è stato chiarito da Cass. 30-6-2005 n. 14010, seppure all’epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto (introdotte col DPR 10 febbraio 1982 n. 15), senz’altro si imponeva l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di tali materiali, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 cc ed all'art. 21 del DPR 19 marzo 1956 n. 303, ove si stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro" soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione", cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri".
Orbene la sentenza impugnata, sul punto, nel respingere la tesi della società, dopo aver premesso che "la normativa del 1956 già contemplava alcune misure specifiche" (quali la segregazione degli ambienti polverosi, l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e l’abbattimento delle polveri con l’umidificazione), ha accertato, in base alle risultanze della prova testimoniale, che tali misure, senz’altro già disponibili all’epoca ed idonee ad abbattere significativamente la polverosità e quindi anche ad evitare l’insorgenza della malattia, non sono state affatto adottate in N. S., essendo anzi emerso che: "il reparto di miscelazione era separato dagli altri (ma non segregato), non vi sono stati per molti anni aspiratori, successivamente vennero adottati aspiratori inadeguati e svariate erano le mansioni che implicavano l’esposizione diretta alla polvere non inumidita, comprese quelle di pulizia di macchine dal materiale secco, dello spostamento dei sacchi di tela contenenti la polvere di amianto, del caricamento dei miscelatori (fatto a mano se le pale erano rotte) e della manipolazione degli impasti, di cui i lavoratori rimanevano impiastricciati".

Pertanto la Corte di merito ha ritenuto nella specie provata la condotta colposa omissiva della società, "sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità dell’ambiente di lavoro, della mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e della mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare (relative alle tute, stivali ecc. e al trattamento di detti indumenti)", considerando tali omissioni rilevanti "a prescindere dalle questioni relative alla dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche" all’epoca.

Illegittimità dello "sciopero delle mansioni" - Cass. 23528/2013

La Corte ha dichiarato illegittimo il rifiuto espresso dal lavoratore di sostituire un collega assente, in quanto tale comportamento configurava una violazione degli obblighi contrattuali e delle previsioni contenute nel contratto collettivo nazionale di categoria. Il rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni del lavoratore assente era illegittimo in quanto non costituiva esercizio legittimo del diritto di sciopero, non indetto dall’organizzazione sindacale a cui il soggetto era iscritto.
L’astensione dallo svolgimento delle mansioni nel caso in esame è definito dai giudici della Corte con l’espressione di “sciopero delle mansioni”, fattispecie estranea al concetto di sciopero e dunque illegittima anche in base ad una copiosa casistica giurisprudenziale. Essa consiste nell’astensione dallo svolgimento di parte dei propri doveri contrattuali, con conseguente violazione delle disposizioni contrattuali, condotta che integra una responsabilità contrattuale e disciplinare del soggetto agente.
La Corte ha confermato, dunque, la sentenza dei giudici di merito, escludendo l’antisindacalità della condotta datoriale e dichiarando legittimo il provvedimento disciplinare disposto dall’azienda.
(Corte di Cassazione – Sezione lavoro, Sentenza 16 ottobre 2013, n. 23528)