Pagine

domenica 28 agosto 2016


Efficacia dei contratti collettivi, non serve una (nuova) legge

di Armando Tursi - Professore ordinario di diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Milano
E’ ancora di grande attualità il dibattito sull’opportunità di una legge sulla rappresentatività sindacale ai fini dell’efficacia (generale) dei contratti collettivi. Ma ce n’è davvero bisogno? A ben guardare essa non serve per i contratti nazionali “di categoria” perché se peggiorativi possono essere teoricamente rifiutati dai lavoratori. E non serve per i contratti aziendali, in quanto spesso ci si dimentica che una norma legale sulla loro efficacia esiste già ed è la legge sui “contratti di prossimità”, norma sostanzialmente ignorata dalle parti sociali. Per quale ragione?
Croce e delizia del diritto sindacale italiano da più di 70 anni, il dibattito sull’opportunità di una legge sindacale, e in particolare sulla rappresentatività sindacale ai fini dell’efficacia (generale) dei contratti collettivi, è tornato di recente alla ribalta.
Da più parti si auspica una traduzione in legge degli accordi interconfederali stipulati dal 2011 in poi, e confluiti nel cd. “testo unico sulla rappresentanza” del 10 gennaio 2014.
A noi pare che non ci sia nessun bisogno di una legge siffatta.
Essa non serve per i contratti nazionali “di categoria”: questi, ove peggiorativi (o percepiti come tali dai lavoratori) rispetto al contratto in vigore, possono, sì, essere teoricamente rifiutati dai lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti (sempre che nella lettera di assunzione non sia inserita, come quasi sempre accade, la cd. “clausola di rinvio” al CCNL vigente); ma allora diventerebbero inapplicabili tutte le clausole del CCNL rifiutato, comprese quelle eventualmente migliorative: il che spiega come mai non si registrino, in pratica, casi reali di rifiuto del CCNL da parte dei lavoratori non iscritti, ponendosi sempre, invece, la questione sul diverso piano della (presunta) condotta antisindacale.
Ove, poi, si tratti di contratti attuativi di deroghe peggiorative consentite dalla legge (cdd. “contratti in deroga alla legge”), allora, già sulla base del diritto vigente, si potrebbe sostenere la loro efficacia generale, in quanto contratti “delegati” dalla stessa legge.
Per quanto riguarda i contratti aziendali, poi, spesso ci si dimentica che una norma legale sulla loro efficacia esiste già: è l’art. 8 della legge n. 148/2011, sui “contratti di prossimità”.
Tali contratti esplicano la loro efficacia “nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario”: “criterio maggioritario” che, anche in considerazione dell’esplicito rinvio operato dalla norma all’”accordo interconfederale del 28 giugno 2011”, ben può essere rinvenuto proprio in detto accordo (ora inglobato nel “Testo unico sulla rappresentanza” del 2014), ossia nella circostanza che l’accordo sia siglato dalla maggioranza dei componenti della RSU, ovvero dalle RSA che rappresentino, complessivamente, la maggioranza dei lavoratori iscritti ai sindacati in azienda.
Ove poi tali contratti aziendali siano stipulati da “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”, oppure “dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda”, e inoltre perseguano le finalità previste dalla legge (es.: la “maggiore occupazione”, o gli “incrementi di competitività”), e investano determinate materie anch’esse previste dalla legge (per es.: le mansioni, i contratti “atipici”, le conseguenze del licenziamento illegittimo), essi (oltre ad avere efficacia per tutti i lavoratori interessati) “operano anche in deroga a norme inderogabili di legge e contratto nazionale”.
In sostanza, la legge del 2011 - ma non tutti se ne sono accorti - regola sia l’efficacia “soggettiva”che quella “derogatoria” dei contratti collettivi aziendali.
La norma tuttavia - com’è noto - è stata sostanzialmente ignorata dalle parti sociali, che addirittura l’hanno sconfessata in uno specifico impegno di “non applicazione”.
Tre sono le ragioni di tale atteggiamento.
La prima: l’eccessiva ampiezza delle materie regolabili dai contratti di prossimità determinerebbe, di fatto, la conseguenza della derogabilità in sede aziendale della quasi totalità, o comunque di una buona parte, delle norme lavoristiche, che pure sono, com’è noto, tipicamente “inderogabili”.
La seconda: la norma afferma la prevalenza del contratto aziendale su quello nazionale, così di fatto rovesciando la “naturale” gerarchia delle fonti collettive.
La terza: la norma violerebbe l’art. 39 della Costituzione, perché attribuirebbe efficacia generale ai contratti collettivi aziendali, con una modalità diversa da quella esclusivamente contemplata dallo stesso art. 39.
Si tratta di argomenti controvertibili e non unanimemente condivisi dalla dottrina.
Ma quel che appare più interessante, di questa vicenda, è una duplice considerazione.
In primo luogo, l’art. 8 della legge n. 148/2011 altro non è che il coronamento di un processo di devoluzione di poteri normativi (anche derogatori) alla contrattazione collettiva da parte della legge, realizzato con finalità di flessibilizzazione del diritto del lavoro, a partire almeno dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso; un processo che ancora oggi, dopo la legge n. 148/2011, prosegue: da ultimo, con il cd. “Jobs Act” (v. l’art. 51 del d. lgs. n. 81/2015).
Si tratta di una tecnica di flessibilizzazione del diritto del lavoro, che muove dai contenuti alle fonti regolative: la legge, anziché modificare i contenuti delle norme in direzione meno protettiva, delega tale compito alla contrattazione collettiva, rendendo la norma legale derogabile da parte di quest’ultima (ma non da parte della contrattazione individuale: sicché essa resta pur sempre formalmente “inderogabile”).
Con il Jobs Act, tale tecnica si combina con la flessibilità direttamente somministrata per legge (v. il contratto “a tutele crescenti”, nonché la nuova disciplina delle mansioni e dei controlli “a distanza” sui lavoratori).
La seconda considerazione è che, a ben vedere, l’art. 8, finché non verrà abrogato (e il Jobs Act si è guardato bene dal farlo), non potrà non esplicare i suoi effetti, pur in presenza di una apparente disapplicazione.
E ciò, non solo perché si registrano sovente casi di accordi aziendali che, pur non menzionando né l’art. 8 né la denominazione di “contratti di prossimità”, di fatto sono stipulati nel rispetto delle condizioni soggettive e oggettive previste dall’art. 8, e derogano a norme di legge disciplinanti le materie ivi contemplate (arguta dottrina ha detto, a tale proposito, che il contratto di prossimità “si fa ma non si dice”); ma anche perché, ove vengano portati all’attenzione del giudice del lavoro accordi aziendali, anteriori o successivi all’entrata in vigore della legge n. 148/2011, che deroghino a norme imperative, il Giudice, ove ricorrano di fatto le condizioni di cui all’art. 8, dovrà considerarli validi e non nulli.

Per non dire, poi, della pratica irrilevanza della previsione per cui i contratti di prossimità possono derogare anche ai contratti nazionali di lavoro: la dottrina che si scandalizza per questo, dovrebbe ricordare che in giurisprudenza è pacifico il principio per cui non esiste una gerarchia tra le fonti collettive, e pertanto il contratto aziendale non rispettoso delle prescrizioni del contratto nazionale, è comunque valido ed efficace sul piano dei rapporti intersoggettivi.